Era uno dei documentari più attesi dell’undicesima edizione del Seeyousound Festival. Una sala piena ha infatti accolto Uzeda – Do It Yourself di Maria Arena, incentrato sull’ultratrentennale storia dei catanesi Uzeda, band culto noise-math rock il cui legame professionale e affettivo con il leggendario Steve Albini li rese tra le realtà italiane più importanti dell’underground mondiale degli anni 90
Ai più gli Uzeda potrebbero non dire molto. In effetti, la band originaria di Catania nata nel 1987 per mano di Giovanna Cacciola (voce), Raffaele Gulisano (basso), Davide Olivieri (batteria), Agostino Tilotta e Giovanni Nicosia (chitarre, Giovanni fino al 1995) ebbe un successo decisamente maggiore all’estero, a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90. In una scena mondiale indipendente e appartenente a un sottosuolo fatto di distorsioni e rumori catartici, la band siciliana è un unicum, quantomeno in Italia. Dopo l’esordio Out of Colous (1989), con una semplice telefonata e l’invio di un demo, quei cinque scalmanati portarono Steve Albini – leggendario produttore di nomi quali Nirvana, Pixies e PJ Harvey – nella loro Catania. Da lì l’inizio di una collaborazione, a partire dal capolavoro Waters (1993), e di un’amicizia che sarebbe durata per sempre, fino alla morte di Albini nel 2024.
Questo e molto altro è raccontato in quello che era senza ombra di dubbio uno dei documentari più attesi di quest’undicesima edizione del Seeyousound di Torino: Uzeda – Do It Yourself, della catanese Maria Arena, è il difficile ma riuscito tentativo di raccontare, in un’ora e quaranta, trent’anni di storia di una band che, secondo la regista, era necessario divulgare proprio per la sua unicità.
Tutto parte da un americano – dottorando in musicologia a UCLA – che, interessato alle sonorità sottoculturali di un certo tipo di underground, si reca a Catania per passare un po’ di tempo con la band, i cui membri ripercorrono la loro storia davanti alla macchina da presa di Maria Arena. A questo si alternano numerosi filmati di repertorio fino ad ora inediti. Onnipresente, assieme alla band, è senz’altro Steve Albini, a cui il film è dedicato – emozionante, al momento della dedica, l’applauso in una sala gremita di fan esaltati ed esaltanti –.
L’impostazione narrativa, che parte degli inizi fino al concerto per i trent’anni della band, è classica, ma non per questo banale. La regista ha voluto costruire un’opera che potesse essere la gioia dei cultori, ma anche dei neofiti che non conoscevano la band o che, come lei, negli anni ’90 non ascoltavano quel genere – un noise rock grezzo, frenetico e tellurico –. La stessa Maria Arena afferma che ad appassionarla degli Uzeda fu proprio la loro storia di band indipendente lontana da ogni convenzione.
Stiamo parlando di ragazzi che fin da subito non hanno mai avuto intenzione di fare della musica un lavoro, neanche dopo essere diventati i primi non statunitensi a firmare per la prestigiosa Touch and Go Records. Gli Uzeda suonavano per il puro gusto di farlo. Le interviste, svolte in tempi recenti, che li ritraggono tutti oltre i 50 anni di età ma ancora attivi come band – nonostante i soli 5 album in 30 anni –, sono divertenti e appassionanti. Tra aneddoti, battute e modi di dire siciliani che ogni volta scatenano fragorose risate in sala, il documentario scorre liscio, fornendo un interessante spaccato di un’epoca in cui la musica indipendente era realmente sinonimo di libertà.
La passione con la quale il dottorando americano ascolta le testimonianze di Giovanna e Agostino, col volto di un bambino felice di avere a che fare con persone così umane e dalla storia straordinaria rispecchia quella dello spettatore. Raffaele, col suo racconto di come iniziò a suonare il basso e di come fosse difficile trovare a Catania qualcuno che gli insegnasse lo strumento, è esilarante. E poi continua a predominare Steve Albini; vederlo rivivere sullo schermo con la magia del cinema è una gioia per gli occhi. I suoi Shellac condivisero il palco con gli Uzeda negli Stati Uniti, in diversi tour che permisero alla band di Catania di farsi un nome ed entrare nell’Olimpo di un’underground mondiale. È una parola che ricorre spesso, underground. Perché effettivamente, come detto nel documentario, non ha più molto senso parlare di indie, che negli anni ’90 aveva tutt’altro significato rispetto all’idea odierna.
Maria Arena ha paragonato gli Uzeda a un vulcano – in riferimento, com’è giusto che sia, al loro Etna –, il quale può manifestare la sua attività in due modi: eruttando violentemente o facendo scorrere la sua lava lentamente. Per lei, gli Uzeda rappresentano entrambe le anime. Sono una band che, nel suo essere ancora attiva, procede prendendosi i suoi tempi, come solo chi non vive di musica e dunque è libero da ogni obbligo può fare. Ma quando suona, ecco che l’impatto è a dir poco esplosivo. Io e tutti i presenti in sala non possiamo che darle ragione. La loro energia è un’eruzione che non lascia indifferenti.