L’ultima vera band rock: sfacciata, catartica, indomabile, antifascista, che prende posizione sui temi del mondo, che cambia la vita delle persone che la ascoltano. Il maggiore riferimento in comune per diverse età e generazioni, che condividono la fotta per le chitarre e le ondate post-punk. L’unico concerto dell’anno a Torino di una grande band internazionale under 40: gli Idles al Flowers Festival
«Una canzone d’amore per me, – dice Joe Talbot introducendo I’m Scum – per ricordarmi di stare lontano da tutti i coglioni e di ricordarmi che ho come amici i migliori scumbag del mondo da 15 anni. Abbiamo fatto delle buone canzoni e delle canzoni di merda, ma sono 15 anni meravigliosi. C’è qualche scumbag qui?»
Eccoci qui, gli scumbag, parola che non è elegante tradurre. Siamo centinaia, probabilmente migliaia. Abbiamo visto dei buoni concerti e dei concerti di merda, ma sono 15 anni che aspettiamo gli Idles. Puoi facilmente vedere sulle nostre magliette la musica che ascoltiamo, è quel genere musicale che ha cambiato mille supporti fisici tranne uno: le magliette, appunto. Oppure puoi sentirlo dai nostri discorsi, qualcuno racconta che è andato a vedere i Fontaines D.C. in Toscana, qualcun altro andrà a vedere gli Arcade Fire a Milano, per tutti l’appuntamento estivo a Torino è con LCD Soundsystem e Massive Attack.
Il Flowers Festival oggi vive una delle serate più attese dell’edizione 2024. Accoglie un pubblico che è composto da fan, ma anche più che semplici appassionati. Ci sono musicisti della nuova scena torinese, che studiano come saltare sulle spalle dei giganti. Si vede qualcuno dei Subsonica e dei Marlene Kuntz, i primi hanno suonato la sera precedente, i secondi lo faranno tra qualche giorno. Ci sono i fan inglesi, quelli che si fanno tutte le date della band girando allegramente l’Europa. Sembra un po’ di essere alla Pellerina ai tempi degli Arctic Monkeys al Traffic. È un evento, credo sia l’unico concerto dell’anno a Torino di una grande band internazionale under 40. Che poi non è neanche Torino – è Collegno, Parco della Certosa Reale –, ma il centro città è a pochi minuti di metropolitana. Stasera resta aperta fino all’una, evviva!
La gigantesca scritta Idles in grasso font Frankfurter™ campeggia alle spalle di Jon Beavis alla batteria e Adam Devonshire al basso. La posa di Joe Talbot mentre canta è iconica, rannicchiato in avanti col piedino appoggiato sulla spia, a latrare il canto arrotando la “R” alla Johnny Rotten. A fianco a lui, Mark Bowen, baffone in voluminosi abiti femminili, e Lee Kiernan, capellone con chitarra alta al petto stile anni zero. Avere l’impiccio dello strumento non impedisce ai due chitarristi di buttarsi tra il pubblico e seminare scompiglio, cosa che accade durante Gift Horse e Benzocaine.
Inizio il concerto dalle retrovie, ma presto mi ritrovo praticamente in transenna, travolto dalle spallate feroci del girone infernale dei pogatori. Lasciate ogne speranza voi ch’entrate. Due giorni prima al concerto dei CCCP avevo pensato che era stato il mio concerto più movimentato degli ultimi anni, ora devo ricredermi. Intanto il pubblico si sgola, «Motherfucker» è il coro all’unisono su Mother.
«This is an anti-fascist song», questa è la presentazione che anticipa Divide & Conquer. Oltre ai pezzacci storici – i più robusti e forse più “ideologici” – suonano anche canzoni dall’ultimo album TANGK, parola che altro non è che il suono onomatopeico della schitarrata sulle corde di ferro. Un album dedicato all’amore, alla sua potenza e alle sue contraddizioni, come da loro espresso nel mantra “love is the fing” che è anche il nome dell’attuale tour.
Schitarrate, scatarrate: gli sputacchi di Talbot innaffiano il palco. Quando il frontman comanda, tutto il pubblico giù in ginocchio a cantare in coro “il nuovo inno nazionale inglese”: Fuck-The-King!
Eppure non è “fuck” la parola chiave di questa serata, ma è Palestina. In diverse occasioni Joe Talbot dice e ribadisce: «Viva Palestina!». Il messaggio che avremmo sognato, voluto, forse preteso, da Giovanni Lindo Ferretti nella rappresentazione punk dei CCCP inscenata nel concerto di due giorni prima, l’abbiamo ottenuto da cinque scumbags inglesi che nei loro pezzi cantano letteralmente «i migliori modi per spaventare i conservatori» – ovvero “leggere e diventare ricchi” – e vogliono portare con la loro musica una solidarietà forte e chiara a favore degli oppressi.
«Questa è una canzone per gli immigrati, una celebrazione del loro coraggio e del loro duro lavoro che hanno contribuito a costruire i nostri Paesi. È una canzone per voi, per la Palestina, per Danny Fucking Nedelko!»: introducono così uno dei pezzi di punta, Danny Nedelko, che hanno eseguito anche il giorno prima a Glastonbury con un imprevisto: è stato lanciato improvvisamente sul pubblico un gommone con degli immigrati – ovviamente manichini –, cosa che si è rivelata poi un’iniziativa di Banksy di cui anche la band era all’oscuro.
Su Never Fight A Man With A Perm, Mark Bowen violenta le corde della chitarra con una bacchetta di batteria: chissà in questo preciso momento cosa sta pensando Cristiano Godano, che lo fa da trent’anni in concerto, ogni volta che inizia Sonica.
È lo stesso Mark Bowen a fare le presentazioni della band, canticchiando Bohemian Rhapsody dei Queen – perché? Forse perché la canzone precedente dice «My blood brother’s Freddie Mercury»? – e Thunder degli AC/DC. A proposito di tuoni fulmini e saette: avrebbe dovuto piovere, avevamo il k-way – tutti il solito modello di Decathlon, come giustamente mi fa notare un compagno di discorsi sui concerti – ma si vede in cielo solo qualche coreografico lampo in lontananza, nella direzione del Canavese, dove stanno venendo giù peschenoci di grandine.
E il concerto inevitabilmente finisce. Un’ora e mezza scarsa, niente bis. Breve e intenso, si dice in questi casi. Troppo breve e troppo intenso, ne avrei voluto di più. Luci accese, ci rivediamo, ci ritroviamo con lo sguardo che brilla di eccitazione. Tanti vagano con gli occhi bassi davanti al palco a cercare portafogli, cellulari, cose perse durante il palco. Paia di occhiali completamente in frantumi – hai voglia a cercare gli occhiali se non hai gli occhiali –. Rivedo un amico inglese con l’occhio tumefatto e un cerotto sul sopracciglio spaccato proprio durante il pogo – lui è di Bristol come gli Idles, non poteva mancare –, queste ferite sono medaglie al valore.
Finché la sicurezza non ci sbatte fuori con la consueta sicurezza, ci fermiamo post-concerto per qualche altra chiacchiera. «Meglio il concerto a Milano o quello di oggi?», «quando ci ricapita di vedere un concerto come questo?». Ma anche: «dal vivo meglio Idles o Fontaines D.C.?»: sogno che si possa presto rispondere a ragion veduta valutando a Torino anche l’altro termine di paragone.