Loading

La stella aggressiva delle Irossa vive e splende

A poco più di un anno dall’apprezzatissimo esordio, le Irossa tornano con un album le cui aspettative vengono ripagate da una produzione di livello, matura, al servizio di un ottimo post punk, ma che non si limita a questo: “La mia stella aggressiva si nasconde nelle virgole e nei punti” è un disco diretto ma anche sognante, frenetico ma dolce. Un lavoro vario, ma comunque coerente e solido negli intenti


«Il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista», diceva un noto rapper pugliese che c’ha visto lungo in diverse occasioni. E anche se le Irossa continuano a essere un progetto indipendente – e dunque ancora libero da qualunque vincolo creativo –, di certo non deve essere stato semplice approcciare una nuova opera sulla lunga distanza. O almeno questo è ciò che ci si immagina se si considera che il loro esordio, Satura, è stato un piccolo ma non indifferente successo. Al suo interno, tracce come Dove è lei, Onde in aprile e Capillari sono diventate piccole hit, cantate a squarciagola a ogni live da un pubblico fedele, col tempo non più limitato esclusivamente alla nutrita scena underground torinese che ha visto nascere la band. Quel disco, per quanto sfaccettato ed “eclettico” – per dirla come la stessa band –, aveva uno stile ben riconoscibile: una formula che nel suo insieme aveva funzionato e, nonostante si trattasse appunto di un’opera prima, la vista sulla strada era tutt’altro che offuscata.

Insomma, piccolo, medio o grande che sia, l’impatto delle Irossa è stato evidente e l’hype per un nuovo lavoro in studio era la diretta e naturale conseguenza. Ecco quindi spiegata la presumibile difficoltà del secondo album. Anticipato da una manciata di singoli che già avevano fatto notare un grande salto di qualità della produzione – a cura questa volta di Claudio Lo Russo –, nelle dieci tracce che compongono La mia stella aggressiva si nasconde nelle virgole e nei punti regnano enigmaticità e audacia, esattamente come nello stesso titolo, allucinato come una poesia beat. Sul piano compositivo, questo nuovo album sembra il proseguimento del precedente ma decisamente spogliato degli elementi indie rock/pop che avevano reso Satura meglio appetibile anche a un pubblico più generalista. Qui, il lato più post punk tanto caro alla band sembra aver preso il sopravvento.

Il risultato è un album di ritmiche spedite e arpeggi trascinanti. Basso e batteria stendono loop potenti e inarrestabili, come in Falso Nueve. Intanto le chitarre dialogano, giocano di accenni e accenti, si inseguono, mescolando le loro anime dinamiche in turbinii sonori esaltanti (Fiori, fiori), arricchiti dal sassofono – suonato dalla new entry Gabriele Chiara –, che per le Irossa continua a dimostrarsi un elemento essenziale per ottenere quel tocco surreale e onirico in più. Si tratta di un sax fresco, giocherellone, effervescente, a volte romantico ma sempre intrigante, che sposa la frenesia quando c’è da correre (Non conosco) e sceglie la dolcezza quando i bpm calano drasticamente, come nel sognante assolo di Sotto il pianoforte, un brano delicato che ben bilancia il mood del disco.

Se ci limitiamo a parlare di post punk, tracce come Potomac e Come vuoi si rivelano forse le più riuscite: due piatti semplici, magari non i più originali nel songwriting, ma dagli ingredienti dosati con la giusta cura e il giusto equilibrio: insomma, due canzoni che funzionano, eccome. Ma in generale l’album, con coscienza ed eleganza, va oltre. Qui, senza strafare, le sottili incursioni elettroniche già presenti nell’esordio si amalgamano con ancora più discrezione, dando prova di grande maturità compositiva. Già dall’intro Fango, con la sua ipnotica progressione sonora, le Irossa fanno capire che con questo album fanno sul serio. Nuovi approcci proseguono in Storia di un corpo che cade, in cui la voce fredda dell’ospite Gaia Morelli è protagonista di uno spoken word che per quanto possa sembrare uno stacco destabilizzante – a tratti sconnesso –, contribuisce a variare un po’ nella tracklist.

E a proposito di voci, quella maschile di Jacopo Sulis e quella femminile di Margherita Ferracini si alternano e si mescolano in testi poetici e introspettivi. Ogni tanto, l’una si fa protagonista e l’altra si fa da parte. Complementari, spesso si intrecciano, forti di una sinergia avvolgente, consapevoli della forza espressiva che possono ottenere dalla fusione dei loro timbri. Un’intesa, questa, che ben si manifesta in brani come Le tue dita ferme e la già citata Non conosco.

La presenza qua e là di altri musicisti – Eleonora Puma (violino), Caterina Salamino (violoncello) e Federico Padrini (chitarra) – rendono l’album ancora più complesso, ma non per questo sbilanciato. Perfino la conclusiva La mia stella aggressiva, che rappresenta l’esplosione sonora definitiva, uno sfogo, un mix delle personalità dei membri della band, non si disconnette dal concept generale e offre un finale catartico.

Una serie di consapevolezze e coerenze sonore rendono La mia stella aggressiva si nasconde nelle virgole e nei punti un album forse meno folle rispetto al precedente, ma assolutamente più maturo, dimostrando che le cartucce creative delle Irossa sono ancora cariche. L’energia vitale della loro stella, al momento, non ha intenzione di smettere di splendere.

Marco Nassisi

Per me scrivere di musica vuol dire trovare una scusa per ascoltarne tanta, scoprirne di nuova e fare un po' d'ordine nella testa.

Loading
svg
Navigazione Rapida
  • 01

    La stella aggressiva delle Irossa vive e splende