Loading

Jazz Is Dead Day 3: cuor leggero e scorza di metallo

Si chiude la settima edizione del Jazz Is Dead. Il festival torinese della sperimentazione sonora e dell’avanguardia musicale termina in bellezza con una line-up possente, che strizza l’occhio al metal. Al centro, leggera come l’aria, la liturgia sonora di Daniela Pes


Una line-up metallica, con cuore caldo al centro. La settima edizione del Jazz Is Dead! giunge al termine, travolta dal suo pubblico più affezionato e battezzata, finalmente, dal sole caldo della primavera. Cominciata con la peggiore delle premesse meteorologiche, infatti, la tre giorni di avanguardia musicale resta in piedi fino alla fine e – con qualche intoppo qua e là – si prende quello che gli spetta.

E quello che gli spetta è davvero molto, gliene va dato atto. Prima di tutto, un posto d’onore tra i festival del piemontese: se non per i numeri – comunque in crescita e di tutto rispetto –, per il coraggio delle sue proposte, sempre ricercate e mai banali. Lo spettro della selezione è molto ampio e disegna un itinerario ascendente di complessità sonora – ma solo da un punto di vista cumulativo – nell’arco dei tre giorni che compongono il festival: dal venerdì, tra dilatazioni elettroniche e musiche concettuali, si arriva alle progressioni noise della domenica, con chiare influenze metal; passando, il sabato, per le atmosfere jazz e fusion, nelle loro infinite e sempre nuove declinazioni.

Ma non sono solo le sonorità pesanti e le frequenti distorsioni – che in ogni caso trovano eccezione nella presenza di Daniela Pes, headliner della serata – a fare da fil rouge tra gli artisti di questo terzo appuntamento: c’è anche il tema del linguaggio, oscuro ed ermetico nella sua complessità. Lo scream dei Nu Jazz, il growl dei Godflesh, la “nevrosi” dei RuinsZu e la lingua ignota di Daniela Pes: la voce delega la sua valenza comunicativa alla dimensione sonora, offrendosi totalmente al suo servizio.

A inaugurare il palco esterno, senza calcarlo veramente – per via di un cambio di programma –, è il jazz elettroacustico di Rob Mazurek e Gabriele Mitelli. Il duo, insieme dal 2018, riporta dal vivo l’esperienza di Star Splitter, disco “d’esordio” – se così si può dire, data l’esperienza di Mazurek – che esplora nuove forme di commistione acustica, tra innesti elettronici e solismi di trombe in libertà sfrenata. Il pubblico, con gli occhi chiusi e i sensi aperti, partecipa in silenzio a questa festa, che sembra celebrare la caduta di ogni regola, di ogni senso, di ogni forma di rigidità: un inno nichilistico alla libertà.

Al loro primo live italiano, i Nu Jazz riportano la folla all’aria aperta, sotto un cielo che a Torino torna finalmente azzurro. I sei membri che compongono la band newyorkese, così diversi tra di loro, fanno dell’amalgama di influenze differenti il loro principale punto di forza, coniugando le armoniche jazz della chitarra all’elettronica dei sintetizzatori modulari, le linee di basso pulite e ostinate all’estetica free jazz della tromba solista e della batteria. Il tutto, accompagnato – ma non sovrastato – dallo screaming della voce principale, intrisa di effettistica vocale.

I RuinsZu dominano il palco dalla prima all’ultima traccia, orchestrando una performance – senza quasi mai fermarsi – concettualmente spaccata in due. Il trio, nato dalla crasi tra gli italiani Zu – basso e sax tenore – e i giapponesi Ruins – qui nelle veci del loro fondatore, il batterista Yoshida Tatsuya –, unisce le atmosfere cupe e tuonanti dei primi al progressive rock dei secondi, trasformandosi quasi in un gruppo garage nei venti minuti d’assenza del sassofonista. Le doti canore di Yoshida, impeccabili anche durante gli assoli di batteria, sono un arcano ancora da svelare per la comunità scientifica internazionale.

È il turno di Daniela Pes e tutto il mondo attorno tace. La sacerdotessa del suono ammalia il suo pubblico; magnetica, incolla i sensi su di sé. Nel corso di una performance che è estetica e sensoriale al tempo stesso, l’introspezione per chi ascolta sembra l’unica via possibile, impossibile da evitare. Il suono è perfetto, non c’è niente da dire: ogni singolo elemento ha il giusto spazio, perfettamente in dialogo con tutti gli altri. Le tre voci sul palco, all’unisono, si incastrano armoniosamente, bilanciando il range sonoro. I timpani, i synth, persino quei pochi accordi di chitarra elettrica: ogni elemento sembra nato per essere lì, solo lì, in quel momento. E non potrebbe essere altrimenti.

Ai Godflesh l’arduo compito di chiudere il festival, nell’imbarazzo di quello che è davvero forse il solo grande errore di quest’edizione. Inizialmente programmati per il club stage e poi, per problemi – incredibilmente imprevisti – di capienza limitata, spostati al main stage del palco esterno, sono rimasti senza soundcheck. Così, il duo si è trovato costretto a rimediare in loco, prima della propria esibizione, di fronte a una folla assetata di metallo. Ma superato l’imbarazzo, pur palpabile nell’aria, presto è tutto dimenticato: l’industrial metal della band di Birmingham fa tremare le impalcature e la folla in visibilio, prima attonita e impaziente, salta e non si ferma più.

Si chiude così, in un crescendo d’emozioni e vibes sonore, l’ultima giornata del Jazz Is Dead! 2024. Il festival torinese riconferma il suo prestigio, alzando ancora l’asticella. Non resta che aspettare l’edizione successiva, sfogliando nell’attesa le emozioni, le nuove scoperte e le riflessioni collezionate in questi giorni, al cospetto di una line-up coraggiosa e sbalorditiva. E il prossimo anno, che cosa ci aspetterà?

 

foto di Elisabetta Ghignone 

Alessandro Bianco

Giornalista, musicista e Video Editor, classe 1992. Vivo a Torino, in un mondo d’inchiostro e note musicali, di cinema e poesia: da qui esco poco e poco volentieri, ma tu puoi entrare quando vuoi.

Loading
svg
Navigazione Rapida
  • 01

    Jazz Is Dead Day 3: cuor leggero e scorza di metallo