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Lives Outgrown: l’esordio inaspettato di Beth Gibbons

L’esordio solista di Beth Gibbons, voce dei Portishead, è straniante e malinconico: in Lives Outgrown speranza e incertezza si mescolano in un incontro piacevolmente inaspettato


Il consiglio per una buona scrittura è sempre quello di conoscere e vivere ciò di cui si sta romanzando. Soprattutto se vogliamo parlare di noi stessi. Tocca prendersi del tempo, per appuntare in maniera chiara e distaccata ciò che abbiamo compreso, per nostra fortuna o per nostro discapito, del nostro scopo nel mondo. Beth Gibbons si è presa dieci anni per comprendere i cambiamenti del corpo che invecchia e della vita che comincia ad avvicinarsi – inevitabilmente – alla sua fine. Le tempistiche allungate e uno sguardo meditativo e di controtendenza alla musica hanno dato a Lives Outgrown, album solista d’esordio, un sapore alieno ma che di umano ha tutto. Una presa di coscienza tematica e musicalmente lenta, slegata dalla performance eccitata, ma che anzi ci tira giù alle consapevolezze terrene e oscure della vita. 

Concettualmente già con Out Of Season, album in collaborazione con Paul Webb ovvero Rustin Man, potremmo considerarlo un esordio della Gibbons staccato dal contesto dei Portishead. Era già all’epoca, come lo è per questo ultimo album, un modo di fare musica grezzo, isolato, maturo.

Lives Outgrown ovvero vivere troppo cresciuti”, vivere di ultra-consapevolezza: è come vagare per una città deserta e rendersi conto che nulla è rimasto come volevamo. Fedele a quest’ultima affermazione, la Gibbons è straniante in ogni traccia, mai fedele ai tempi e ai generi da cui promette di partire. Il folk psichedelico e il rock sperimentale, rivisitati dalla produzione di James Ford (Blur, The Last Dinner Party, Depeche Mode), sgretolano le certezze e danno inizio a un viaggio nuovo, principalmente musicato da percussioni basse, spesso tribali e oscure, che dettano quel tema meditativo ma agognante. Sono i suoni della quotidianità a ricondurci al nostro mondo: valigie e scatole piene che traballano dentro un bagagliaio, in viaggio per chissà dove.

La voce di Beth Gibbons è eterea ma pesante, nel senso positivo del termine; entra dentro e ti incatena, consapevole che quelle catene non saranno lì per molto. Tell Me Who You Are Today è una psichedelica ma dolce cavalcata di chitarra acustica sottolineata dai violini, che evocano le tenebre e l’oscurità di un luogo ignoto. In Floating on a Moment, molto simile al repertorio dei primissimi Portishead, c’è Lee Harris dei Talk Talk alla batteria, incalzante ed evanescente. Burden of Life ci trasporta nell’immaginario western-horror, invogliato dalle arcate di violino stridenti, come anche in Reaching Out, che si concedono però un ritornello jazz fusion arricchito dai piccoli tocchi di tromba alla Tom Waits e The Smile. In Lost Changes gli accordi pinkfloydiani sono rafforzati da un testo che devastante è dir poco: «we’re all lost together/we’re fooling each other/we try but we just can’t explain». Un ragionamento sull’invecchiamento, che Gibbons fa su sé stessa e invita a farlo su di noi. E ancora in Rewind, musicalmente inquietante più di tutte: «And the wild has no more to give/makes no sense/this place is out of control». 

Beth Gibbons dimostra di poter toccare i dolori in maniera distaccata e per niente delicata, per farli riappacificare con noi stessi: in Lives Outgrown c’è luce, alla fine. Seppur tormentata e debole, ogni traccia nel suo percorso lascia piccoli spiragli di luce. Come in Oceans, un valzer leggero con tendenze pop e folk, e in Whispering Love, che chiude l’album con un arpeggio di chitarra e un testo che rafforza la nostra tesi: lasciarsi andare, dopo un lungo viaggio rocambolesco, al cambiamento. Un cambiamento, ecco cosa figurano quelle quattro teste della stessa Beth in copertina. Uno slittamento di corpo e anima, che lascia la vita spensierata per abbracciare, con felicità, l’arrivo della fine.

Marika Tassone

25 anni (non proprio) di libri, film e musica metal. Scrivo tante cose e lavoro per il cinema.

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