Fearless Movement segna un punto di svolta per l’artista americano, che per la prima volta apre le porte a nuovi generi musicali integrandoli nel proprio stile personale. In un disco concettualmente suddiviso in due parti, tra contaminazioni e comfort zone, Kamasi Washington trova un ottimo equilibrio e firma un altro grande album
Una danza sfrenata sulla nuda terra, ma con l’anima pur sempre in volo. A sei anni dal suo ultimo album, Kamasi Washington ritorna in grande stile, con un’uscita discografica che rappresenta un vero e proprio cambio di rotta nel percorso produttivo che ha contraddistinto la carriera discografica del sassofonista di Los Angeles, radicato – seppur non privo di contaminazioni – nel terreno del free jazz.
Fearless Movement sembra ruotare attorno a due concetti chiave fondamentali: la famiglia e il ritmo. In primo luogo, la famiglia Washington presidia l’intera artwork dell’album, raffigurante la piccola Akili Asha – figlia dell’artista che, nonostante la tenera età, figura anche in qualità di musicista nel brano che porta il suo nome, Asha The First –, lanciata in un’allegra corsa intorno al padre, il quale indossa gli abiti disegnati dalla nipote stilista. Sullo sfondo, come in Harmony of Difference, un dipinto della sorella Amani. Se allarghiamo poi il senso stretto della parola “famiglia”, la vasta cerchia di amicizie e sodalizi che orbitano attorno al musicista colonizza buona parte del disco, influenzandone le sonorità in modo significativo.
Proprio queste sonorità, così diverse dalle precedenti, ci portano dritti al secondo concetto: il ritmo. In questo senso, basti pensare che lo stesso autore ha definito Fearless Movement come il suo “album dance”. Chiaramente, l’aggettivo non va inteso in senso letterale ma, a detta dello stesso Washington, si consideri la “danza” come «un movimento in grado di esprimere il proprio spirito attraverso il corpo». Preponderanti, infatti, le ritmiche trainanti, le collaborazioni artistiche che incalzano il beat e, più in generale, una logica compositiva meno “ghettizzata” dallo sguardo anarchico dell’universo jazz.
Fearless Movement è un disco profondamente ispirato, affascinante e immersivo, che sembra concettualmente suddiviso in due parti: la prima, permeata da influenze sonore “d’oltregenere” e da collaborazioni artistiche d’eccellenza; la seconda, in cui riemerge incontaminato – se così si può dire – lo stile unico e personale dell’artista americano: ora disteso, epico ed emotivo; ora libero e senza freni, lanciato in solismi che sembrano abbattere – o disinnescare – ogni parvenza di regola armonica.
Nella sua prima parte – più estesa della seconda –, l’album stupisce per il suo carattere innovativo e ricercato, sia per quanto concerne il percorso artistico intrapreso fino ad oggi dall’artista californiano, sia per la commistione originale tra free jazz, funk, hip-hop e R‘n’B. Certo, il sodalizio tra questi generi non rappresenta una novità nel panorama discografico e ha già rotto i suoi tabù da molti anni; tuttavia, sembra qui prendere vita per mezzo di una simbiosi differente. Il jazz resta sempre il teatro principale dell’artista, ma si apre ora a nuove sperimentazioni, a nuove sonorità. Sicuramente il musicista non è estraneo alla scena black californiana che ruota intorno al mondo dell’hip-hop (ma non solo) – tra le più significative e interessanti nel panorama contemporaneo –, grazie anche alla prossimità – in arte e in amicizia – di artisti del calibro di Flyng Lotus, Thundercat, Anderson Paak e Kandrick Lamar. È però la prima volta che, anziché raggiungere quel mondo attraverso le sue numerose collaborazioni, Kamasi Washington lo ospita nel suo, aprendolo di fatto a nuove esplorazioni.
L’anima alata ed extra-dimensionale del jazzista resta l’elemento preponderante, al servizio questa volta di una lunga serie di ospiti. Tra questi, spiccano sicuramente i nomi di D Smoke, che domina le rime di Get Lit scivolando su un tappeto in stile Funkadelic, battezzato da George Clinton in persona, anche lui ospite nel brano – e dei fratelli Austin, incalzati dall’inconfondibile progressismo del basso di Thundercat in Asha The First: le due tracce sembrano rievocare gli esordi del sassofonista, cicatrizzati nell’ormai leggendario To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar, pietra miliare nella storia dell’hip-hop.
Nella seconda parte, Kamasi Washington si riprende la scena con una delicatezza da lasciare incantati. Ridestato dalla trance performativa – forse a tratti anche eccessiva – che ha caratterizzato Heaven and Earth, l’artista torna a indossare le vesti del creatore di mondi, orchestrando ambientazioni sonore che, occhi chiusi e cuffie su, sembra quasi di vedere, le possiamo respirare. Le due tracce centrali di questo blocco, Road to Self (KO) e Interstellar Peace (The Last Stance), ne sono un perfetto esempio. La narrazione dei brani è estesa, si prende il suo tempo. Si espande, lentamente. La dinamica della sessione ritmica, del pianoforte e – ovviamente – di Sua Maestà Il Sax, è in continua evoluzione: ora sussurra, ora cresce, ora esplode. E poi, sussurra ancora. L’architettura, nella sua complessità, si intuisce con naturalezza. Il vento al suo interno soffia e ci accompagna, prendendoci per mano; lacrime agli occhi, lo assecondiamo: impossibile dirgli di no.
Il ritmo e il groove approdano, così, al centro della produzione artistica di Kamasi Whashington, per un ascolto più immersivo e di più semplice diffusione che non risulta, però, meno raffinato. Il gusto estetico del sassofonista permane; anzi, sembra farsi più equilibrato rispetto all’ultimo album, tornando al fascino ammaliante – e forse ancora insuperato – di Harmony of Difference.