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Bob Dylan, ovvero l’arte di fare sempre di testa propria

A secco di Oscar nonostante le numerose candidature, A Complete Unknown di James Mangold racconta con coraggio la sfuggente personalità di Bob Dylan dall’approdo a New York fino alla svolta elettrica, senza perdersi in ridicoli elogi tipici di molti biopic musicali americani. Un film in cui la progressiva conoscenza dell’artista porta con sé la consapevolezza di un eterno enigma


Non si poteva trovare un titolo migliore per il primo biopic su Bob Dylan direttamente approvato dallo stesso cantautore. Perché, malgrado il suo essere una delle voci e delle penne più iconiche della storia della musica americana e non solo, Bob Dylan è sempre stato A Complete Unknown. Nel film, arrivato a New York nel 1961 con quattro stracci e una chitarra, la prima cosa che l’artista fa è recarsi all’ospedale psichiatrico dove è ricoverato il suo idolo Woody Guthrie, leggenda del folk ora in un evidente stato degenerativo, che però non gli vieta di ascoltare e apprezzare una canzone che il giovane gli ha dedicato, Song to Woody. In quel momento c’è pure Pete Seeger, amico di Guthrie e insieme a quest’ultimo uno dei più grandi esponenti del folk. Anche Dylan è un musicista folk, ma fin dalle prime scene del film esplicita i suoi interessi verso anche altri orizzonti sonori.

Dunque, chi è Bob Dylan? Il suo vero nome è Robert Zimmerman, ma non vuole che si sappia. Viene dal Minnesota, ma dice di aver lavorato in un circo itinerante e fin da subito intorno alla sua figura si crea un alone di mistero, manifestato in uno sguardo enigmatico, apparentemente perso nel vuoto, un po’ da stronzo. Anche Sylvie Russo – nome fittizio in riferimento alla sua prima fidanzata Suze Rotolo, la ragazza nella copertina di The Freewheelin’ Bob Dylan (1963) – è all’oscuro di molti aspetti legati al suo passato. E continuerà a esserlo.

Il film, diretto da James Mangold, dimostra come Bob Dylan non smetta mai di essere un perfetto sconosciuto, anche dopo il raggiungimento della notorietà discografica; perfino dopo essere diventato un’icona dei diritti civili, con le sue canzoni politiche dalla tagliente critica sociale, mentre le televisioni raccontano e alimentano il terrore psicologico della guerra fredda. A Bob tutto questo sembra importare, ma fino a un certo punto. Quando in un locale del Greenwich Village – mentre fuori regna il panico – intona la ferocissima Masters of War e nota la presenza di Joan Baez, lo sguardo che le lancia mentre canta è quello di chi sembra aver scritto quella canzone quasi solo per far colpo su di lei, che è un’attivista molto più animata di lui. Ed è bella, affascinante; complessa e complicata, come la breve e burrascosa relazione sentimentale e professionale che intraprenderanno.

A Complete Unknown, tra pezzi di vita reali e altri romanzati ai fini drammaturgici – e per la biografia di un artista del genere, permettersi di confondere volontariamente verità e invenzione ha perfettamente senso –, non ha paura di mostrare i difetti del suo eroe. Bob Dylan è un genio, ma come molti geni è anche estremamente arrogante, spesso strafottente. Dissociato e immerso nella sua musica, che nel film parla più di ogni altra cosa. Dove non arrivano – o non vogliono arrivare –  le parole di un dialogo, ci arrivano le liriche di una canzone, così sfacciate nel descrivere lo stato d’animo di Dylan da diventare espressioni dirette del suo pensiero. The Times They Are A-Changin’, cantata al Newport Folk Festival, è un manifesto che scatena la gioia di tutti, compreso, ovviamente, Pete Seeger, che è anche uno dei fondatori del festival. Egli vede nel talento di Dylan il volto giovane del folk: la rivoluzione. Certo, i tempi stanno cambiando, ma per chi? Per il mondo? Per la musica? O per Dylan stesso?

Il nuovo spaventa tutti. Il nuovo spesso può trasformarci in conservatori. E anche gli amanti del folk acustico, che è sempre stato il genere di riferimento per la canzone di protesta volta a esprimere un messaggio che andasse contro il potere, può trovarsi impreparato di fronte alla potenza di un amplificatore e di una Fender Stratocaster, trasformandosi egli stesso nel potere da combattere. Ricordiamoci che fino a quel momento il rock ‘n’ roll era una musica generalmente pensata per ballare e divertirsi, non era ancora impregnato di quella carica politica e sociale che avrebbe avuto nella seconda metà degli anni ’60.

Bob Dylan si è sempre stufato in fretta delle sue canzoni: non è raro, ai suoi concerti, sentirlo cantare un suo testo su una strumentale completamente diversa da quella originale. Il brano più cantato all’interno del film è Blowin’ in the Wind, che tutti amano e tutti vogliono sentire. Ma Bob sente di aver bisogno di qualcos’altro. Di pensiero diverso è il pubblico del Newport Folk Festival – edizione del 1965 –, che ha imparato ad amarlo, ma che è pronto a tacciarlo di tradimento quando gli verranno scompigliati i capelli dall’energia di Maggie’s Farm, It Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry e Like a Rolling Stone.

Per un artista come Bob Dylan, i cui fan sono dei devoti – alla domanda «Hai figli?», Bob risponde «Sì, centinaia» –, questo è inaccettabile. E sarà solo l’inizio di una delle carriere più controverse della storia della musica, nel percorso di uno dei nomi più iconici e ben saldi nella cultura pop, ma allo stesso tempo anche uno dei più sfuggenti di sempre. In A Complete Unknown regna un sottile strato di ironia: negli occhi di Dylan, nei suoi ghigni, nella sua capacità di starti antipatico e simpatico allo stesso tempo, perché libero.

Marco Nassisi

Per me scrivere di musica vuol dire trovare una scusa per ascoltarne tanta, scoprirne di nuova e fare un po' d'ordine nella testa.

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