In un periodo florido in cui il cinema italiano, grazie agli indipendenti, sembra essere tornato coi piedi per terra ritrovando quella forza di raccontare storie vicine al suo pubblico, un film punk – e sul punk – come Margini di Niccolò Falsetti sceglie di parlare a tutti coloro che con la propria band, in pieno Do It Yourself, hanno provato a fare qualcosa di grande per la musica che amano
Iniziamo con alcune premesse, forse scontate, forse no. La musica è la forma d’arte più popolare dal ventesimo secolo in poi. Nel calderone dei generi, il punk è il più dirompente di tutti, perché si è rivelato un movimento, un approccio, uno stile di vita, più che un semplice stile musicale: un modo di intendere il mondo e la società. E il cinema è normalmente considerata l’unione definitiva di tutte le arti. Finora non credo di aver detto nulla di troppo originale. Lo status del punk e il suo ruolo nell’universo culturale è noto più o meno a tutti, dagli ascoltatori più esperti a quelli che non ne sanno molto, ma che ugualmente riconoscono – grazie anche e soprattutto all’influenza di un certo tipo di estetica – che si tratta di un genere che, tra alti e bassi, ha sempre avuto il merito di fregarsene delle convenzioni del music business. Anche il cinema ha le proprie attitudini. È l’arte che più di tutte ha anche fare col capitalismo, ma ciò non vieta che siano esistiti e continuino a esistere film capaci di andare oltre lo stesso concetto.
Sono queste le premesse che ci permettono di comprendere l’importanza di un film come Margini (2022) nel panorama cinematografico – e musicale – italiano. Colui che l’ha diretto, Niccolò Falsetti, oltre a essere un regista è anche membro di una band punk (per essere precisi, street punk), i Pegs. Con questi, nel 2007, è riuscito a portare nella sua Grosseto una storica band americana, i Madball. Ed è questo l’evento autobiografico che – dopo aver diretto decine di videoclip e accantonato l’idea di portare sul grande schermo il libro Costretti a sanguinare, del cultore dell’underground Marco Philopat – sta alla base del suo esordio al lungometraggio cinematografico.
Il film comincia proprio con una canzone dei Pegs, La palude, che otterrà una candidatura ai David di Donatello come migliore canzone originale. Il regista la fa suonare alla band protagonista della storia, i Wait for Nothing. Le dinamiche sono quelle che hanno coinvolto e continuano a coinvolgere buona parte delle band emergenti: una sgangherata sala prove i cui volumi spropositati sono fonte di rabbia e bestemmie dei vicini, e una realtà di provincia isolata dove sembra – e di fatto lo è – impossibile costruire qualcosa in campo artistico. Perché mancano gli spazi e, se ci sono, non sono valorizzati. I tre componenti della band, Michele – il cui interprete Francesco Turbanti è anche co-sceneggiatore e reale compagno di Niccolò Falsetti nei Pegs –, Edoardo e Iacopo sono tre personaggi paradigmatici: è facile ritrovarsi in determinati tratti delle loro personalità. Insieme dovevano suonare a Bologna con i famosi (fittizi) Defense, ma il concerto è saltato – non credo vi suoni nuova come dinamica – e così, pazzi e sognatori, decidono di organizzare loro stessi una data a casa loro, appunto Grosseto. Lo propongono ai Defense, che accettano. Da quel momento, per lo spettatore, seguire le disavventure dei tre è un’occasione per farsi un po’ di risate amare e riflettere su situazioni dannatamente comuni e archetipiche nel mondo della musica indipendente. All’inizio propongono l’iniziativa al comune, ma ciò si rivela impresa impossibile; alla fine stiamo parlando del punk, insomma… “rumore”. E quando capiscono che l’unico modo per farcela e sbrigarsela da soli – in pieno stile Do It Yourself –, ecco che il problema dei problemi viene a galla: organizzare un concerto costa una follia!
Chi bazzica il mondo delle produzioni cinematografiche sa che un film è prima di tutto un’opera collettiva, l’insieme di decine di professionisti che si uniscono per un obiettivo comune. Margini è uno degli esempi recenti più affascinanti di opera collettiva. E lo è soprattutto – ovviamente – sul piano musicale. È un film che valorizza non solo la musica in sé, ma anche il concetto di scena musicale. Quella punk in particolare non è solo chitarre veloci, bassi dilaniati da plettrate frenetiche e tupa tupa alla batteria, ma anche tutto ciò che gravita attorno all’estetica del genere stesso. Il film si avvale del cameo vocale del fumettista Zerocalcare, molto legato all’ambiente in quanto disegnatore di innumerevoli locandine di concerti underground, attività che svolge tutt’ora, ancora molto attivo nonostante il successo. Chiaramente, non poteva mancare la sua mano anche nella locandina di Margini.
Tornando nel campo prettamente musicale, la supervisione è stata curata da Alessandro Pieravanti, fino a marzo 2024 voce narrante e percussionista del Muro del Canto, band folk rock romana. Altro ex della band è Giancane – ora cantante solista ma fino al 2018 anche lui tra le file del gruppo capitolino –, che si è occupato del missaggio.
Ma il fiore all’occhiello di Margini è la scelta delle canzoni. Falsetti comprende la capacità del punk di parlare visceralmente alla pancia e al cuore dell’ascoltatore. E infatti i brani selezionati sono perfettamente coerenti, nel mood e nel testo, con le scene e le sequenze alle quali vengono affidate. La stessa palude a inizio film è la sala prove marcia in cui i Wait for Nothing rumoreggiano; il loro mondo ai margini che si incancrenisce giorno dopo giorno. O quando sul palco di una sfigatissima festa di paese suonano un classico dello street punk come Punk è moda, dei romani Colonna Infame Skinhead. Il titolo del film fa riferimento al brano Ai margini, de Gli Ultimi, così energica e malinconica nel descrivere la condizione di chi vive in provincia, lontano da ogni possibilità di emergere.
Il personaggio di Michele è un trentenne con compagna e figlio e le difficoltà che si troverà ad affrontare per realizzare il suo sogno di portare i Defense – nel film interpretati dai Payback, band realmente esistente – lo porteranno a esorcizzare la sua condizione, in una scena in cui per sfogarsi non potrà fare altro che mettersi alla batteria e suonare una delle canzoni più belle degli aostani Kina, ovvero Questi anni, che «stan correndo via come macchine impazzite», come urlano nel ritornello. E poi, buona parte delle canzoni utilizzare nel film sono quelle che risuonano diegeticamente nella macchina di Edoardo, da Brucia di vita dei leggendari Negazione all’inno È tutto loro quello che luccica, degli altrettanto leggendari Klaxon.
Ma il punk è anche un genere che ha sempre avuto la forza di non prendersi mai troppo sul serio, così come chi lo ascolta e chi lo suona. Iacopo è sì il bassista dei Wait for Nothing, ma è soprattutto un virtuoso violoncellista borghese, in procinto di partire per il tour francese del maestro Daniel Baremboim, rischiando di lasciare i suoi compagni di band e non farli suonare. Michele è il più grande e puro dei tre, ma ciò non gli vieta di perdersi insieme a Edoardo in una catartica scena in cui cantano a squarciagola Se bruciasse la città di Massimo Ranieri. Anche dei punkettoni come loro riconoscono che quel pezzo spacca.
Certo, il film si basa sul fatto che per i nostri eroi organizzare questo concerto è una questione di vita o di morte, almeno per Michele ed Edoardo, che per portare i Defense a Grosseto faranno letteralmente di tutto, nonostante tutto. Anche Iacopo ci tiene, glielo si legge negli occhi, esattamente come gli si legge la triste consapevolezza che purtroppo col punk forse non ci mangerà mai. Col violoncello forse sì.
In fondo Margini, nel suo essere così diretto e metaforico allo stesso tempo, è un film sull’amore – e sull’ossessione – per un qualcosa che sembra star scomparendo, e che nessuno sano di mente si sognerebbe di sperare si salvare, come se ci fosse una qualche speranza. Ma infatti, il punk è la musica dei folli, degli emarginati. Dei reietti della società che però se ne fregano di esserlo e che per questo continuano a combattere, anche se per un cumulo di macerie.