Inizia col botto la 3 giorni dedicata alla musica nel centro storico di Vaglio Serra. Per un momento non ci sembra vero di trovarci tra le colline del Monferrato, travolti dal vento e dalla potenza esplosiva degli australiani Tropical Fuck Storm
«La traduzione – di Fans Out – è espandersi, propagarsi come la musica e le idee condivise; ma per chi è piemontese come noi suona anche come “fa ‘n saut”, ovvero fai un salto, al concerto e all’evento», spiega Davide Costantini a La Stampa nel lontano Maggio 2016.
Quest’anno il Festival di Paese è alla sua settima edizione, dopo aver saltato 2 anni a causa del Covid. La prima volta a Vaglio Serra, per 3 giorni consecutivi, con un headliner internazionale.
Tra vigneti e stradine tortuose, troviamo tanti giovani ma anche anziani e famiglie; all’ora di cena l’atmosfera è chill: Gianni d’URSS suona al Castello di Vinchio e Vaglio, in mezzo a una folla che balla col bicchiere in mano. Il clima che si respira è quello di una vera festa di paese, di quelle ben organizzate, dove si mangia bene e si ascoltano orchestre di liscio. Senza tradire le aspettative, la prima a salire sul Molecole Stage è proprio l’Orchestra Loris Gallo che si prefigge di «far ballare e divertire anche chi non è un ballerino tenace, con delle chicche di brani umoristici al limite del trash».
Nel Main Stage si preparano a suonare i Duck Baleno, band veronese attiva dal 2019. Un riff di chitarra super distorto riempie la piazza e la voce di Francesco Ambrosini rimbalza sulle pareti delle case, come se uscisse da un megafono. Il live continua mantenendo la soglia dell’attenzione sempre alta, con canzoni che sembrano voler attingere da svariati generi musicali amalgamandoli tra loro. In alcuni casi il risultato è sorprendete, in altri un po’ meno.
Si passa dal rock all’elettronica, con tanto di drum machine e sequenze, per poi virare su groove funky e atmosfere psichedeliche, con organi floydiani e larghi tappeti di synth. L’energia della band coinvolge il pubblico, che si scalda ballando in una notte estiva fredda e ventosa. I Duck Baleno si portano a casa una performance incisiva, con idee semplici, musicali e in complesso ben arrangiate. Tanti assoli per gli entusiasti del rock anni ’70 e del virtuosismo chitarristico, che forse, a volte, potrebbero lasciare più spazio alla canzone.
Dopo il quartetto scaligero, salgono sul palco le ĠENN, band con base a Brighton, formata dalle tre maltesi Leona Farrugia (voce), Janelle Borg (chitarra), Leanne Zammit (basso) e dall’inglese Sofia Rosa Cooper (batteria). Il concerto inizia senza la cantante, il power trio tenta di fomentare il pubblico con una lunga intro strumentale, dove ogni membro sembra dover prendere confidenza col proprio strumento. Finalmente l’entrata “trionfale” di Leona, che ruba la scena con balletti alla Anthony Kiedis; prontamente si fionda sul microfono liberando una voce potente e controllata, amplificata da un quintale di delay. I suoni non sono molto ricercati, ma linee di basso conturbanti, chitarre eteree e groove insistenti marcano uno stile e un’identità che sembrano essere già chiari alla band, nonostante la loro giovane età.
Il loro primo EP esce nel 2021, mentre nel 2023 il loro album di debutto. Sulla carta si presentano come un gruppo punk e post-punk, ma le canzoni virano su toni più psichedelici e alt-rock, con lunghi vocalizzi che ricordano Eddie Vedder, accompagnati da movenze sensuali alla Robert Plant.
Il concerto prosegue e i brani sembrano essere sempre più simili, gli arrangiamenti ripetitivi, l’andamento ciclico e a tratti monotono. Nonostante ciò, il gruppo ha un grande potenziale. La cantante ha cercato con grinta e movenze accattivanti di emozionare il pubblico, dimostrando carisma e determinazione. Con il tempo e la pratica, sono certo che sapranno offrire performance sempre più convincenti, ma intanto decido di fare un salto al Molecole Stage, dove si sta esibendo la torinese Funky * Club Orchestra.
Qui l’atmosfera è completamente diversa: su una magnifica terrazza panoramica piena di lucine e bandierine, l’allegria e la presa bene la fanno da padrone. La band suona canzoni sbarazzine tra gente che balla e si gode la serata, i beat partono da un DJ che insieme alle frizzanti linee di basso infiamma il palco con ritmi ballabili. Chitarra, tastiera e fiati completano l’orchestra regalandoci assoli sporadici e parti all’unisono ben congeniate, mentre una dolce voce femminile ci culla tra le colline.
Siamo arrivati al tanto atteso momento: i Tropical Fuck Storm. Il supergruppo da Melbourne sale sul palco in silenzio; il basso si prende tutto lo spazio, insieme a temi di chitarra che ci sfiorano le orecchie come gocce: così inizia Braindrops, canzone che dà il nome al loro album del 2019. Le voci di Gareth Liddiard, Erica Dunn e Fiona Kitschin si dividono la scena egregiamente, tra cori, parti doppiate e soliste; Lauren Hammel alla batteria entra in punta di piedi con un groove che lentamente ci trascina al suo interno, come storditi da un andamento sempre più coinvolgente. La presenza scenica e la disinvoltura della band ci riporta finalmente a chi vive i palchi da anni, con naturalezza.
Un altro ritmo pulsante apre Chameleon Paint, tratta dall’album del 2018, A Laughing Death in Meatspace.
Gareth canta come un indemoniato e suona una Fender Jaguar che tra le sue mani sembra ubriaca: distorsioni sporchissime, feedbacks e playing brutale. La canzone porta su la dinamica e lascia il pubblico estasiato.
Successivamente la band attinge a una cover dei Lost Animal tratta da un doppio singolo del 2017; riarrangianta nel loro stile, Lose The Baby inizia fortissimo, con lunghi accordi e una batteria martellante. I BPM salgono ancora e ci troviamo avvolti in un assolo noise accompagnato da synth psichedelici, prima di rituffarci nuovamente in accordi ruvidi, suoni matti e spaziali.
Erica e Fiona ci portano in una dimensione ammaliante e sensuale con Ann, cover dei The Stooges e ultima traccia del loro Submersive Behaviour (2023). Sospesi all’interno di suoni delicati ci lasciamo trasportare, fino a quando si accendono le chitarre e ci regalano un outro di una potenza esagerata. Ancora spettinati dalla performance, You Let My Tyres Down inizia senza preavviso: il primo accordo è come un pugno nella pancia. La canzone, da molti considerata il loro cavallo di battaglia, assume nella dimensione live un’autenticità e una crudezza irripetibili. In alcuni momenti il piccolo impianto sembrava non riuscire a reggere la potenza sprigionata dalla performance: la voce graffiata urla a squarciagola, la batteria trema colpita con forza da Lauren, gli amplificatori sembrano voler scoppiare.
Legal Ghost, tratta da Deep States (2021), completa la scaletta con almeno una canzone pescata da ogni album in studio. Un incessante coro della band collega il brano a Rubber Bullies, dove un riff di basso distorto dal suono metallico ci ipnotizza per svariati minuti. Two Afternoons risveglia la voglia di noise e rock sperimentale. Le note di synth e le grida della chitarra elettrificano l’aria per un’ultima volta, prima della chiusura. Paradise è l’ultima canzone della serata, dove la band si esibisce in un climax definitivo, con un finale lunghissimo che fa impazzire la piazza.
Appoggiano gli strumenti tra feedback di chitarra, fischi e applausi scroscianti. Escono di scena. Poche parole. Stessa cosa il pubblico, rimasto sconvolto.
Sono circondato da persone entusiaste e soddisfatte che si dirigono verso l’ultima navetta per Nizza Monferrato. Per un attimo non sembrava vero di essere lì, di dover tornare a casa. Un’esperienza travolgente all’interno di un festival ben riuscito e ben organizzato.