1976: in un’Italia segnata dalla violenza politica, dalla strategia della tensione e dal “miracolo economico italiano”, nella città di Pordenone, Friuli-Venezia Giulia, nasce un movimento alternativo destinato a rimanere impresso nella memoria artistica e contro-culturale del nostro Paese
La musica e la cultura anglosassone non erano elementi affatto sconosciuti per i giovani punk pordenonesi. Grazie alle radio ascoltate dai militari statunitensi di stanza nella città di Aviano, infatti, gruppi come Sex Pistols, Clash e Buzzcocks passavano, molto spesso, prima da Portus Naonis che dalle altre città italiane.
Pordenone non era Londra e neanche Berlino. Isolata, lontana dalle luci di Milano o Roma, qui la cultura era principalmente conservatrice e piuttosto noiosa. Ma proprio questo clima asfittico ha generato un’ondata di ribellione pura. La scintilla? Un collettivo di nome The Great Complotto. Sì, suona un po’ come il titolo di un film distopico, ma di fatto era un gruppo di punk scapestrati con la testa nel caos artistico, che volevano sfuggire alla gabbia della provincia creando la propria “città-stato” musicale.
The Great Complotto non era solo una manciata di band punk. Era una filosofia, un’esperienza culturale in cui musica, grafica, estetica e ideologia si fondevano per creare un’identità comune. Qui, si faceva tutto da soli: registrazioni su cassetta, copertine fatte a mano, vinili stampati in qualche garage e poster strappati. Nessuno voleva essere solo un musicista; l’obiettivo era cambiare le regole del gioco, buttare giù i muri del music business e far diventare Pordenone il centro del proprio universo.
Le band che orbitavano nel Great Complotto non erano esattamente radio-friendly. C’erano i Tampax, noti per i concerti che definire provocatori è decisamente poco; suonavano un punk grezzo, sporco, a tratti estremo. Oppure gli HitlerSS, una band che già dal nome faceva capire che non si sarebbero fatti problemi a infastidire chiunque. Ogni concerto era una performance volutamente scioccante: rottura, provocazione, distorsione e caos. Le due band vennero anche arrestate dalla polizia inglese durante un tour a Londra nel 1979. Il motivo? Le copertine dello split dei due gruppi recitava un verso non propriamente accettabile per la polizia inglese: «Queen Elizabeth I Wanna Fuck You».
Altre band come i Sexy Angels e gli Andy Warhol Banana Technicolor mescolavano l’ironia pop con il lato oscuro della new wave, creando un’estetica tutta loro che ancora oggi ispira musicisti e visual artists italiani. Le loro ispirazioni spaziavano dai Joy Division ai Devo, ma in chiave totalmente anarchica e anti-italiana. Il bello è che pur venendo dalla stessa scena, ogni band aveva il proprio suono e il proprio stile: punk, elettronica lo-fi, psichedelia distorta.
Incredibilmente, questo movimento nato nella provincia italiana attirò l’attenzione anche fuori dall’Italia. Giornalisti stranieri, cultori dell’underground, cominciarono a parlare di questa bizzarra scena italiana: Pordenone diventò improvvisamente un’icona per chi cercava la next big thing fuori dai soliti schemi. Tanto che gli inglesi arrivarono a chiamarla la Manchester d’Italia – forse un po’ esagerato, ma l’energia e il DIY di Pordenone non si trovavano altrove –.
La magia di questa folle scena, però, non era solo legata all’aspetto musicale: The Great Complotto rappresentava una vera e propria corrente artistica al limite del situazionismo di cui, molto spesso, gli stessi gruppi erano i principali animatori. Girando per le strade di Pordenone – o di Naon, antico nome della città – si potevano incontrare giovani vestiti da supereroi che sbucavano dai tombini o intenti a suonare degli strumenti di cartone. Per quanto comportamenti del genere possano far pensare a uno smodato consumo di sostanze, il movimento punk pordenonese era, al contrario, attivo sul versante opposto: in una città con un elevatissimo tasso di tossicodipendenza, i naoniani rifiutavano le droghe ponendosi, ancora una volta, in antitesi alle tendenze dell’epoca.
Oggi, la scena musicale di Pordenone non è più il circo punk di una volta, ma il suo spirito è ancora lì, latente. È la città dei festival alternativi, degli artisti che escono dagli schemi e di chi continua a vedere nella musica indipendente una via d’uscita dall’apatia della provincia. E anche se i tempi d’oro sono passati, chiunque metta piede a Pordenone con una chitarra in mano sa che cammina sulle orme di una delle scene più assurde e incredibili che l’Italia abbia mai visto.