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Realtà e figaggine di Quasi Famosi

svg13 September 2024SoundtrackStorieMarika Tassone

Ventiquattro anni dopo la sua uscita in sala, Quasi Famosi è ancora una pietra miliare della nostra cultura cinematografica, un viaggio nell’America musicale dove realtà e finzione non hanno confine


Partiamo da una cosa: non è che i film di Cameron Crowe spicchino di arguzia. L’abbiamo già martoriato su questo magazine analizzando Singles, un prodotto piatto che forse non era del tutto sotto il suo comando, ma che doveva rispondere alle logiche di mercato di quel momento. Se mi chiedereste però di indagare sul momento florido della sua carriera, è proprio un film sulla musica che vi citerei.

Cameron Crowe cresce a San Diego e a soli 15 anni comincia a scrivere per le famose riviste musicali quali Creem e Playboy. Una gavetta consolidata grazie all’aiuto del famoso critico Lester Bangs gli darà poi il pass entry per essere assunto da Rolling Stone tra i Settanta e gli Ottanta, offrendogli la possibilità di seguire in tour le band più famose del momento. Led Zeppelin, Eric Clapton, Bob Dylan, The Allman Brothers Band tutti in una sola giornata, vi immaginate? A 22 anni finisce gli studi e qualche anno dopo approda al cinema con Non per amore…ma per soldi (1989), consolidandosi definitivamente come regista.

La trama di Quasi Famosi (2000) segue esattamente questi step autobiografici. Come per il più recente The Fabelmans di Steven Spielberg, Cameron Crowe riavvolge il nastro della sua atipica adolescenza, sviscerando temi e personaggi di un’epoca passata senza il filtro della nostalgia. Ogni cosa in questo film è stata vissuta e assaporata dal protagonista, dall’incontro con uno stralunato Robert Plant sul tetto di una villa, alla stretta amicizia/alleanza con Lester Bangs. Ma è proprio l’andazzo epico e allo stesso tempo critico nei confronti di quel periodo che fa di Quasi Famosi un film multistrato, composto da diversi piani di lettura critici nei confronti di ogni singolo personaggio e del rock stesso (come non era stato per Singles).

«Sei giusto in tempo per il rantolo della morte». Sono le rassicurazioni del personaggio di Lester Bangs (Philip Seymour Hoffman) che affida il primo ingaggio come redattore a William Miller (Patrick Fugit), ovvero la trasposizione cinematografica dello stesso Crowe. Il rantolo della morte di cui parla Lester è il rantolo del rock, un genere all’osso con cui nessuno ha più niente da spartire. Ma se il rock muore qualcuno dovrà pur parlarne, no?

Chi meglio di noi sa quanto è dura la vita da redattore: pochi soldi, poco tempo, ma tante nuove uscite da assaporare. Will però è smosso da un sogno e da una passione per il rock insostituibile, così forte da fargli dimenticare le necessità primarie. Inizia così il viaggio «nell’industria del più figo», un’azienda massiccia che, ahinoi, persiste ai giorni nostri.

Gli Stillwater/Allman Brothers Band sono ancora degli emergenti, ma hanno già la grinta e abbastanza ego da poter distruggere un palco. Will/Cameron è un osservatore della loro ascesa e, seguendoli nel tour in giro per l’America, dovrà premurarsi di custodirne vizi e virtù. «Una volta che andrai a Los Angeles avrai un sacco di amici, saranno tutti falsi amici». Le parole di Lester risuonano come mantra per quasi tutto il viaggio, fino all’incontro con Penny Lane/Pamela Des Barres (Kate Hudson), ovvero la regina delle groupie

L’iniziale fiducia e apparente amicizia si appesantirà, per l’appunto, quando Will capirà che la macchina del più figo esiste veramente e che lui non potrà e non vorrà farne parte. Quasi Famosi critica perciò l’industria musicale, che mette al primo posto l’immagine e l’apparenza del rock senza andare ad assaporarne l’essenza e la verità. Il rock morirà se continueranno ad averla meglio le logiche dell’ego e della sopraffazione. Non è più importante cosa si suona e perché, ma chi sei e come ti vesti per farlo. È la stessa Penny Lane a rendersene conto, stanca di seguire il più figo per diventare la più figa e volenterosa di evadere da una bugia in cui lei stessa non si riconosceva più. Penny Lane è la metafora perfetta – e per questo il personaggio preferito di molti – sull’annullamento della persona all’interno dell’industria musicale: non vale più il tuo passato, la tua vera età, il tuo vero nome. Inventa un personaggio e sarai famoso. O quasi.

Nonostante la presenza di una splendida Frances McDormand nei panni della madre Elaine e quella della sorella Anita aka Zooey Deschanel, vera fiamma scatenante della passione per il rock sul fratellino, il film non ebbe una calorosa accoglienza: gli incassi non colmarono le aspettative e il titolo non giro così a lungo, fino alla sua riconsiderazione attuale. Il revival della pellicola è da attribuire soprattutto all’avanzamento dei social e al passaparola sul web, che consiglia costantemente cosa guardare e perché. Complici anche le quotes e i dialoghi favolosi, per cui valsero l’Oscar alla migliore sceneggiatura nel 2001.

Quasi Famosi ebbe una grande impressione su di me da giovane appassionata di rockMi interessava capire cosa c’era sotto la patina dolciastra delle rockstar e fantasticavo di incontrare i miei idoli e di scoprirne doti e difetti (cosa che continuo a fare). Il film dipinge un paradiso lontano, da cui Cameron ha preso le distanze ma che continua a ricordare con tenerezza. Un viaggio che andava fatto, a dispetto delle restrizioni di Elaine, per raggiungere quelle consapevolezze che nessuno ci avrebbe chiarito.

Ecco la potenza di Quasi Famosi: un po’ tutti nella vita abbiamo vissuto quelle situazioni fuori casa, con amici più grandi di noi, un po’ sballati e freak, delle volte maestri di vita e delle volte falsi adulatori. Un’esperienza che ci porta a perderci e ritrovarci, a capire cos’è reale e cosa non lo è; ancora una volta, a capire il significato di finzione e realtà e saperle distinguere nettamente. Will decide alla fine di comunicare al mondo cosa sono veramente gli Stillwater, ovvero una massa di cretini; allo stesso modo, Lester Bangs odia i The Doors perché fingono di essere dei «buffoni alcolizzati» e non perché lo sono veramente.

Questa impressione suscitata dalla frase del critico/mentore di Will/Cameron, specialmente nell’industria musicale, è ancora oggi molto presente. Si ha l’impressione di tornare ai lustrini e alla presenza scenica sessuale e focosa; alle poche note banali capaci di catturare, ma non di colpire; alla finzione e non alla realtà. Cameron Crowe parla di noi e della nostra quotidianità, usufruendo semplicemente della metafora del rock morente e della sua esperienza personale. Per questo non c’è bisogno di essere dei rockettari per amare questo film. Anzi, potrebbe essere un buon modo per avvicinarvi al genere.
Con me ha funzionato, eccome.

Marika Tassone

25 anni (non proprio) di libri, film e musica metal. Scrivo tante cose e lavoro per il cinema.

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