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I Fat Dog hanno sfasciato il post-punk

svg12 September 2024AlbumRecensionipaolo albera

L’impatto devastante dei loro concerti, diretta conseguenza di un passaparola spontaneo che li ha fatti conoscere prima Londra, poi in Inghilterra e ora in tutta Europa, li rende un caso unico tra gli esordi di quest’anno. I Fat Dog sono la band di cui tutti stanno parlando: chi molto bene, chi molto male, senza vie di mezzo tra eccitazione e disgusto. Il loro primo album non si pronuncia, si abbaia: Woof.


Quando finirà questo infinito post-punk? L’attuale ennesima ondata non può durare per sempre. Idles e Fontaines D.C. sono ormai superstar di cui presto non potremo più permetterci i biglietti dei concerti. Gli Shame sono rimasti una sorta di Peter Pan per bimbi ormai troppo cresciuti. I Murder Capital non saranno mai i numeri 1 d’Irlanda. I Black Country New Road sono implosi in partenza. I Black Midi si sono sciolti qualche giorno fa. Dry Cleaning, Squid, forse Yard Act: ce ne siamo infatuati solo per un album. Se ho dimenticato qualcuno, vuol dire che in questi sette/otto anni non è stato abbastanza importante. 

A sfasciare il post-punk arrivano i Fat Dog. Assurdi, apocalittici, teatrali, estremi, escapisti. Per noia, per capriccio, per scazzo, non certo per intento consapevole. Non hanno nessun messaggio particolare, non hanno nessuna posizione nei confronti della società, non mostrano alcun barlume di sensibilità e sentimento. Prendono tutta la cosmogonia e la buttano via, e ci si buttano anche loro, per citare il noto italiano. Lasciano agli altri le chitarre e le melodie e i concetti; ammucchiano suoni sintetici in orge furiose, versano secchiate di benzina techno e accendono il fuoco.

La band nasce a Londra in tempi di pandemia, su iniziativa di Joe Love alle prese con demo casalinghi, per ammazzare il tempo. In breve tempo si aggiungono Morgan Wallace (sax e synth), Jacqui Wheeler (basso), Johnny ‘Doghead’ Hutch (batteria) e Chris Hughes (synth). Prima delle registrazioni, a far parlare del gruppo sono le esplosive esibizioni dal vivo. Chi ha assistito a un loro concerto (il primo in Italia è stato a Ypsigrock) ha visto una band che si catapulta in mezzo al pubblico, si esibisce in balli macchiettistici, prende il comando della sala, tira fuori il lato selvaggio di centinaia di persone abituate invece alla pennata precisa e al riff fatto bene.

Le pulsioni che portano all’estremo i generi affini al rock e quelli affini alla dance hanno una grossa differenza: i primi vogliono distruggere il palco, i secondi vogliono distruggere il locale. I Fat Dog si collocano più che altro nel secondo gruppo. Eppure rimangono nell’ambito “rock“, perché le canzoni hanno strutture urgenti e frammentate e non hanno le dilatazioni ipnotiche della musica da club. Le aperture nei tour di Viagra Boys, Yard Act, Shame Sports Team dimostrano che la loro strada va in quella direzione. 

Il percorso discografico verso la fama è spianato: a lanciarli è una delle maggiori etichette inglesi, la Domino, e la produzione è affidata a James Ford, abituato a lavorare con Arctic Monkeys, Depeche Mode, Blur, Fontaines D.C. (oggigiorno se sei un big e non sei prodotto da James Ford non esisti). Il primo singolo, però, è tutt’altro che accomodante: King Of Slugs è un kolossal techno punk di ben sette minuti, che fa selezione all’ingresso tra chi si vuole calare in questo inferno e chi prudentemente preferisce restare nel formato leggero da playlist Spotify

Giunge l’ora dell’album appena uscito, Woof.. Running, All The Same, Closer To God, sono messe industriali a velocità dopate e guidate da motivi klezmer e marcette polka. Wither è il mantra che sigilla l’album: «you better wither baby before you die». Dall’inizio alla fine, è un rave di casse dritte, chillato giusto da un paio di momenti – I Am The King e Clowns – che riescono anch’essi a indispettire le orecchie perbene con ripetizioni ossessive e un uso ubriaco di autotune. I testi oltrepassano l’assurdo e ruotano intorno al culto del Fat Dog (introdotto in Vigilante e concluso da And So It Came To Pass): dio fauno e apocalittico che decide vita e morte, godimento e dolore, e in copertina calpesta le macerie di un’umanità decaduta. Mentre sta decadendo anche il post-punk, ora c’è questa “roba”: i Nine Inch Nails dei cazzoni, i Prodigy dei normie

L’accoglienza della critica non ha mezze misure: si passa dall’entusiasmo («sensazionale» per NME; copertina su Rockerilla) alle stroncature («abbaia ma non morde» secondo il Guardian; «tremendi» per SentireAscoltare). Il recensore oculato direbbe “la verità sta nel mezzo…”. E invece no, la verità sta negli estremi, perché ascoltare questo album non può lasciare indifferenti, sia nell’eccitazione sia nel disgusto.

In questo i Fat Dog hanno sicuramente vinto. Sono capaci di stanare il lato irrazionale e animale dei gusti ben educati. Arruolano sostenitori direttamente sul ring dell’esibizione live. Si fanno ascoltare e riascoltare in un disco che, play dopo play, si scopre più variegato di ciò che pensavi. Ok, fatalmente saranno destinati nel tempo a perdere l’originaria carica distruttiva, prorompente, spontanea. Ma in questo momento sono candidati a essere considerati l’esordio dell’anno.


Non c’è momento migliore per “sperimentarli” dal vivo: in Italia si esibiscono il 14 settembre a Spring Attitude (Roma), il 15 settembre al Poplar Festival (Trento), il 16 settembre all’Arci Bellezza (Milano).

Paolo Albera

Scrivo di musica per chi non legge di musica.

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