Classe 1999. MJ Lenderman, al suo quarto album, trova finalmente la sua posizione nello spazio del folk alternativo con radici forti nella tradizione nordamericana. Un posto fatto di testi post-ironici, caldo e rassicurante ma anche capace di avviare riflessioni
Che la musica folk nordamericana stia prendendo un ruolo sempre più rilevante nel contemporaneo è un dato di fatto, anche se forse è semplicemente una questione di risonanza, hype e tendenza. Se è vero che il mercato si sta aprendo sempre di più – dall’undeground al mainstream – lo è altrettanto che la scena tendenzialmente non si è mai fermata da quando si è iniziata a ibridare con il rock alternativo, formando una nutritissima quantità di generi. Dai classici Wilco, The Microphones/Mount Eerie, Sufjan Stevens e Modest Mouse, passando per Father John Misty, Phoebe Bridgers, Big Thief, Waxatchee e un’altra sfilza infinita di nomi decisamente rilevanti: gli esempi si sprecano e si diramano in tantissime direzioni che per comodità vengono racchiusi sotto i cappelli di indie folk, slacker rock e alternative country, spesso tra loro ibridati e intersecati.
Le definizioni di genere, nella musica come in altri contesti, lasciano però quasi sempre il tempo che trovano e forse sarebbe meglio parlare di sensazioni, più che di ogni altra cosa. È un po’ quel che ho pensato alla fine del primo ascolto di Manning Fireworks del cantautore statunitense MJ Lenderman: qualcosa che è suonato in un certo modo per necessità, per volontà esplicita e che porta a usare determinati strumenti – musicali e lirici – non per la necessità di rientrare in una determinata casella. Certo, va detto che Lenderman non è affatto nuovo a questi suoni e che sono certamente i suoi, sia da solista sia con la band Wednesday in cui milita dal 2020; ma qui, come mai prima d’ora nella sua carriera, viene fuori un elemento che doveva ancora trovare il suo spazio: l’urgenza convogliata nella consapevolezza.
Il primo aspetto in cui possiamo ritrovare quanto detto finora in Manning Fireworks arriva ancora prima di premere play e far partire il disco. Le nove tracce dell’album fanno terminare il viaggio a poco meno di quaranta minuti, lasciando intuire un approccio conservativo di cautela che ha due possibili motivazioni: insicurezza o risolutezza nell’avere bene in mente quando occorre fermarsi per non risultare ridondante. Se mi avete seguito fino a qui avrete probabilmente capito che il caso di MJ Lenderman rientra nella seconda ipotesi. Questo suo ultimo lavoro è infatti estremamente ponderato, misurato e calcolato non per andarci con i piedi di piombo ma perché è esattamente quello che il suo autore aveva bisogno di dire nello spazio adeguato.
Manning Fireworks è un disco di americana alternativa che si appoggia su suoni conosciuti, confortevoli e appetibili a un largo pubblico ma che non rinuncia mai alla sua funzione principale: servire a chi lo ha fatto per assestarsi in un punto preciso della sua carriera. I testi raccontano – con sarcasmo pungente e amarissimo – di sconfitte quotidiane normali di un qualunque sfigatissimo post-adolescente appassionato di videogiochi e di musica indipendente. Una persona che scava dentro di sé, dentro le sue radici culturali e i suoi ricordi per radicarsi sul presente e affermarsi nel momento attuale. «Non sarei in seminario, se potessi stare con te» canta il nostro, con la voce contemporaneamente rotta e svogliata in Rudolph, raccontando una realtà fatta di educazione religiosa imposta, volontà di ribellione e riflessioni sui sentimenti che mettono a nudo tutto ciò che MJ Lenderman è: un venticinquenne talentuoso cresciuto in un contesto estremamente rilevante per la sua arte, intrisa del suo vissuto in ogni sua componente.
La parte strettamente musicale, strumentale e di arrangiamento riflette anch’essa questa dimensione. I componimenti sono adagiati, un po’ scazzati ma non per presunzione ma perché così è chi li ha composti. L’uso degli strumenti segue lo stesso registro: lap guitars, armoniche e violini che si abbracciano con fuzz e distorsioni elettriche dal sapore velatamente shoegaze e noise mentre la voce racconta di episodi che strappano qualche amara risata a chi ascolta. Il risultato è convincente perché è vivo, vero e credibile: Lenderman è questo, lo sa e ne prende atto in ogni suo aspetto. Emblematico in questo senso è l’ultimo brano, Bark at the Moon, che dura un quarto del totale dell’intero album ed è diviso in due parti: un crescendo tipicamente indie folk ci racconta delle notti insonne del cantante, fino a culminare in un’orchestra di droni e feedback che occupa più di metà brano, connotando il disco in modo inequivocabile e terminando il viaggio.
In definitiva: Manning Fireworks è un disco con le radici nel country e nell’indie rock, che però ha una sua identità ben definita. Nessun suono è scelto per essere accomodante verso chi ascolta, nessuna storia è scritta per creare enfasi empatiche fasulle. Tutto è dovuto a un’urgenza, quella esplicita del suo autore che finalmente ha compreso a pieno come esprimersi.