Negli ultimi anni, invece, si è andato affermando un ritorno in pompa magna e i locali sono iniziati ad aumentare. Al punto che, oggi, si può trovare un’offerta così ampia che le serate si accavallano e c’è l’imbarazzo della scelta. Prendendo ad esempio una pagina Instagram come “Torino Jazz Week”, si può notare come ogni giorno della settimana ci siano tanti locali che ospitano serate ognuna di tutto rispetto. Osservando meglio, la dicitura è ricorrente: si tratta sempre di jam session.
Detto in modo molto grossolano, una jam session – che qualcuno si diverte a tradurre “sessione di marmellata” – è un momento in cui alcuni musicisti suonano insieme, seguendo dei codici e delle convenzioni dettate da un genere o dal contesto in cui si suona.
Prendiamo una jam session jazz, che è la classica jam per antonomasia: ogni musicista suona insieme ad altri alcuni standard – brani diventati parte del repertorio da più di un secolo, che derivano per buona parte dai musical degli inizi di Broadway – di conoscenza comune (o perlomeno conosciuto da chi deve eseguirne il tema principale). A turno, ci si improvvisa per diversi chorus – che corrispondono alla struttura del brano –, riadattando e variando la melodia; il codice da seguire è dettato dall’armonia di base, che tutti quanti devono seguire, in attesa del proprio turno per eseguire l’assolo.
Al di là dei tecnicismi, è interessante osservare ciò che accade durante una jam. Generalmente, in base al contesto, sedersi dietro uno strumento davanti a un pubblico dà sempre una certa carica di adrenalina. Quindi di base, a meno che a farlo non sia un professionista, per la maggior parte dei partecipanti il primo pensiero poco prima di suonare è: «Speriamo di non fare figuracce». Questo pensiero si fa più pressante nel caso tra il pubblico ci fossero musicisti professionisti, su cui si cerca di fare colpo. Certo: dipende dal contesto, dalla frequenza con cui si partecipa alle jam, dalla familiarità con questi ambienti e via discorrendo.
Successivamente, si entra in contatto con i musicisti con cui si condivide il palco: Stefano Bollani, in suo libro scriveva che «la jam session è una gara: vai a farti notare, a far capire che sei della famiglia, che conosci i codici». Si riferiva, con ciò, alle sfide tra i musicisti, in cui ognuno cerca di essere all’altezza degli altri. La prima sfida, però, è con sé stessi: prima di tutto, è un modo per farsi le ossa con il proprio strumento, calibrandosi con gli altri e cercando di sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda; ma anche con il pubblico, cercando di comunicargli qualcosa.
In una jam, si possono trovare tantissime personalità: dai timidi agli sbruffoni, dai perfezionisti a quelli che «a casa mi veniva», dai musicisti che si limitano ad ascoltare senza salire mai sul palco a quelli che invece dal palco, una volta saliti, difficilmente scenderanno. Ognuno apporta il proprio background, formativo ed esperienziale.
Un tempo, spesso questi incontri erano come delle battaglie che vedevano fronteggiarsi tra loro musicisti molto agguerriti. Oggi, si respira un’aria diversa, specialmente qui a Torino dove l’anima dei musicisti cerca di vibrare, di scalpitare e di emergere: dove, in primis, c’è la voglia di suonare. A riprova di ciò – come osservato all’inizio –, la rapida crescita di questo tipo di realtà, indice di una scena che scalpita e che vuole emergere (leggi anche l’articolo La casa del Jazz).
Un jam può aver luogo in qualsiasi posto, momento e contesto, con o senza strumenti. Ovviamente, le jam non si limitano al jazz. Prendendo come riferimento sempre Torino Jazz Week, ne esistono di ogni tipo in giro per la città: rock, pop, blues, soul, balkan, roda de choro (ne abbiamo parlato qui), funk – quest’ultima da poco ritornata in auge dopo lo stop pandemico, la cui formula vantava un notevole successo –. Senza dubbio, il format della jam session jazz è molto vincente e richiama molti musicisti a “pellegrinare di parrocchia in parrocchia”, creando una sorta di comunità locale. Ma il fenomeno delle jam è vivo grazie a chi lo sostiene davvero: il pubblico. Questo, partecipando attivamente, fa sì che la jam non si limiti a essere un’esperienza per pochi, di una cerchia ristretta che “se la suona e se la canta”, ma sia invece un’esperienza condivisa e interconnessa, che permette a musicisti e ascoltatori di “alimentarsi” a vicenda.