In questo quarto album, Michael Kiwanuka torna alle origini e racconta, attraverso un morbidissimo viaggio musicale, quanto sia bello riscoprire l’importanza dei piccoli passi e il piacere autentico di fare musica
Anni fa un amico mi disse che amava accendersi una sigaretta di notte e ascoltare The Soft Parade disteso sul letto a luci spente, perché ci sono album – sosteneva – il cui ascolto richiede di mettere temporaneamente in standby tutti gli altri sensi attivandone solo uno.
Lì nacque la mia personale categoria di album a luci spente. Possono essere album strutturalmente complessi che richiedono una particolare concentrazione, ma anche – anzi, più spesso – album sulfurei – penso ad Anastasis dei Dead Can Dance o I’m New Here di Gil Scott-Heron, quest’ultimo nella mia top three degli album della vita – o album che raccontano storie talmente sottili che se ti distrai un attimo sono già volate via.
Ed è questo il caso di Small Changes, ultimo gioiellino confezionato dall’artista londinese di origini ugandesi Michael Kiwanuka. Avvertenza: se vi è piaciuto Kiwanuka, l’album pubblicato nel 2019 che gli è valso il Mercury Prize e una nomination ai Grammy, ecco, allora forse Small Changes non fa per voi. L’ultimo album, infatti, è meno preciso del precedente, più abbozzato e impulsivo, come se l’artista, nel comporlo, avesse cercato di rispondere a una precisa urgenza senza preoccuparsi di darvi una forma netta o di incontrare i gusti del pubblico. E di fatto così è, perché le scelte musicali compiute in questo disco riflettono la sua evoluzione personale e artistica: è lo stesso Kiwanuka a raccontare di aver sofferto molto la pressione mediatica e le aspettative dell’ambiente artistico e di essersi sentito libero dal peso di “dover fare per dover essere” solo una volta ottenuto il Mercury. A quel punto ha capito di volersi concentrare solo su lavori musicali spontanei, dischi che arrivassero «con naturalezza», ed è questa – a mio parere – la chiave interpretativa di questo ultimo lavoro.
Small Changes è una sorta di ritorno alle origini, un cerchio che si chiude ripiegandosi sulle atmosfere morbide di Home Again e allontanandosi in maniera netta dalle sonorità muscolari e intense del precedente Kiwanuka, in cui l’artista ha combinato con precisione quasi chirurgica soul dal retrogusto vintage, afrobeat e rock psichedelico.
In Small Changes torna un elemento tipico della produzione dell’artista britannico, ossia un certo penchant per gli omaggi: tra le righe troviamo inscritti grandi classici come Bill Withers, Marvin Gaye e Otis Redding – amatissimi da Kiwanuka –, ma anche riferimenti meno diretti a Gene Clarke, Mazzy Star e Beth Gibbons. Il pezzo di apertura – Floating Parade – inquadra l’intero album: l’artista ha spogliato la struttura dagli arrangiamenti complessi che avevano caratterizzato l’album precedente, lasciando che la voce fosse protagonista, una voce che si assesta a metà tra toni carezzevoli alla Ben Harper e la pastosità di Bill Withers. Floating Parade è accompagnata da un synth solare e sostenuta da un basso morbido e funky che ci fa capire immediatamente che questo album brucia a fuoco lento. Qui Kiwanuka riconosce che, per quanto ci si sforzi di essere concreti, difficilmente lasceremo un segno perché «non possiamo essere più forti della vita stessa», tanto vale quindi ricalibrarci e tornare alla sostanza, all’amore e alle relazioni che contano (One And Only, Live For Your Love).
La produzione essenziale valorizza gli assoli di chitarra quasi onirici della title track, in cui entrano nel mix anche archi leggeri e la batteria di James Gadson, storico collaboratore dello stesso Withers. Un trasloco – quello che l’artista ha fatto lasciando Londra per una più tranquilla Southampton –, la paternità: Kiwanuka racconta quanto in realtà siano i piccoli cambiamenti e non i grandi terremoti a imprimere nuove direzioni alla nostra vita.
Gli strumenti quindi attraversano leggeri tutto il disco, come la batteria spazzolata di One And Only ma anche il riff downbeat di piano in Rebel Soul. I singoli Lowdown (part I e part II) sono secondo me la parte più densa dell’album – non a caso sono collocati a metà, come se fossero il picco di una gaussiana –; il cambio di registro è palpabile, qui Kiwanuka vira in maniera significativa verso toni psych-rock e blues, elettrificati dal basso di Pino Palladino (The Who) e da chitarre (Lowdown part I) che anticipano l’omaggio strumentale apertamente pinkfloydiano di Lowdown part II.
Si scivola a questo punto lungo la curva, chiudendo con una cinquina quasi vellutata in cui spiccano per morbidezza Follow Your Dreams e la dolcissima Live For Your Love, intrisa di mood jazz e cori leggeri che accompagnano – senza mai sovrastare – la voce dell’artista in tutto l’album.
Small Changes è dunque una bella opera di artigianato musicale, più matura di Home Again, meno ruffiana – si può dire? – di Kiwanuka e di Love & Hate e per questo più autentica. Un album consapevole e delicato che non entra a gamba tesa, ma che aspetta solo che tu gli apra la porta, spenga la luce e ti distenda sul letto in ascolto.