Il 2 giugno si è svolta la quarta e ultima giornata dell’ottava edizione di Jazz is Dead!, festival associativo ideato da Jazz is Dead APS, realizzato da Arci Torino e Magazzino sul Po con la direzione artistica di TUM Torino. Dal profondo Bunker sonoro di Torino, una line-up di altissimo livello ha animato la serata: Galas, Teeta, Ghost Dubs, Mad Professor, The Bug e Cortex of Light si sono susseguiti regalando un’esperienza immersiva nelle molteplici declinazioni della musica giamaicana
Il Jazz is Dead! si è concluso con un piccolo miracolo: riportare a galla un’atmosfera che, personalmente, credevo perduta nelle mie memorie adolescenziali, un ritorno inaspettato a quelle serate tra l’ex Nuvolari di Cuneo e il Cinema Vekkio di Alba. Protagonista indiscusso della serata, forse ancor più della selezione musicale, è il muro di casse di Bassi Gradassi: un progetto artigianale nato nel 2016 che porta in Italia tutta la potenza dei sound system giamaicani.
Rispetto alle serate precedenti, questa si svolge dentro la sala grande del Bunker, complice la possibile pioggia e le lunghe ore necessarie per montare l’impianto. Quando arrivo, Galas è già alla consolle a far ballare il pubblico con selezioni roots reggae, affiancato da Teeta, che ci accompagna verso territori in cui la dub incontra la techno. Una commistione che ha ormai la solidità di una tradizione, pur restando figlia dell’ibridazione. Le teste si muovono a tempo, qualcuno si lascia andare, qualcun altro si ritira nel proprio brodo di pensieri, cullato dalla morbidezza del suono.
Poi il suono si fa più oscuro e stratificato: entra Ghost Dubs, alias Michael Fiedler, l’erede naturale di quella fusione tra dub techno e ambient drone che sembrava essersi dissolta con la fine della storica etichetta Chain Reaction. Il suo live è un’immersione profonda in un paesaggio sonoro fatto di potenti basse frequenze, che scavano dentro una materia elettronica dove le macchine sembrano cancellare ogni traccia di umanità, senza però riuscire a nascondere del tutto un’anima calda e pulsante.
In scaletta compaiono riverberi industriali, echi lontani di Demdike Stare e Andy Stott, tutto dentro una materia sonora che vibra come un organismo alieno. Ascoltarlo dal vivo, nell’impianto Bassi Gradassi, è stato come entrarci dentro: il sub spinge sui timpani, i vetri tremano, finanche le toilette alla turca, lontane pochi metri. Si ondeggia, ma più che danza è una trance collettiva.
Nel frattempo, tra i bar e la zona di decompressione, si riprende fiato e si chiacchiera. Il pubblico è vario per età e provenienza, riconfermando Jazz is Dead! un festival accessibile anche per le famiglie.
Alle 20 circa è l’ora di Mad Professor, pioniere della produzione digitale e figura chiave nella storia della musica giamaicana ed elettronica. Il pubblico si stringe, la sala si fa calda. Il suo set parte con un remix di Karmacoma. E non è un caso, dato che Mad Professor è l’autore dello storico No Protection (Virgin Records, 1995), album in cui ha reinterpretato interamente Protection dei Massive Attack, trasformandolo in un classico del dub moderno. Un lavoro seminale, considerato uno dei più riusciti esperimenti di dialogo tra il trip hop e la cultura dub britannica, precursore di altri capolavori intersezionali come Dub Side of The Moon del collettivo Easy Star All-Stars. La collaborazione con i Massive Attack è proseguita poi con Mezzanine Remix Tapes ’98, una serie di remix di tracce da Mezzanine, pubblicati ufficialmente solo nel 2019, sempre da Virgin Records. Anche qui, l’artista rende omaggio a quel repertorio e lo espande: Teardrop arriva dilatata, ruvida, rallentata.
Mad Professor usa il mixer come strumento performativo, manipolando in tempo reale effetti come delay, riverberi a molla e filtri, aprendo e chiudendo canali per creare dinamiche imprevedibili. Alterna pull up, cut improvvisi e interazioni vocali al microfono in puro stile toasting. Somministra le tracce come un alchimista che dosa gli elementi: un po’ di dancehall, un po’ di trip hop, una fuga nella jungle introdotta dall’iconica intro di World a Reggae di iNi Kamoze. In scaletta piazza anche Bam Bam di Sister Nancy, la traccia reggae più campionata di sempre. Poi un remix di Jamming di Marley che vira piacevolmente nella drum’n’bass; mi sento come catapultata dentro il negozio di dischi di Human Traffic (nostalgia canaglia). A ogni pezzo che sembra chiudere il set si aggiunge un’altra traccia, come se non volesse scendere dalla consolle. Non lo biasimiamo.
Segue un altro sciamano dei bassi, il visionario The Bug con Machine, il suo primo album strumentale da solista, pubblicato su Relapse (2024). Un susseguirsi di industrial dub e floor weapons, quelle sonorità scolpite nei bassi e nei metalli, che lo contraddistinguono sin dagli anni Novanta. The Bug è l’alias di Kevin Martin, produttore mutaforma con una costellazione di progetti alle spalle: da Techno Animal a King Midas Sound, passando per collaborazioni con Flowdan, Moor Mother e Burial. Il live con Flowdan all’edizione 2023 di Jazz is Dead! è stato uno dei più intensi.
Quest’anno torna da solo, con un set ridotto all’osso e portato oltre, pensato in collaborazione con Jazz:Re:Found per colpire direttamente allo stomaco, alimentato dall’impianto Bassi Gradassi. Stare dentro diventa effettivamente una prova fisica, soprattutto se come me non avete l’abitudine di portare le cuffie antirumore. Non mancano alcuni disguidi tecnici: a un certo punto il set si arresta, sembrerebbe per via di un deck che aveva smesso di funzionare. Per qualche minuto resta il silenzio, smorzato dal pubblico. In certi casi non sempre vale la massima the show must go on, almeno sul momento, ma una volta intervenuti i tecnici si ritornano a palpare, letteralmente, le basse frequenze prodotte da The Bug. E a ballare ancora più convintamente.
Chiude la line-up Cortex of Light, creatura elettronica nata dall’unione di Aitch, Piezo e Primordial Ooze. Operano spesso nell’ombra ma sanno bene quando emergere: negli ultimi due anni hanno pubblicato tracce, remix e mix originali su etichette e piattaforme come Communion, Artetetra, Comic Sans, Eska, NTS Radio, Kiosk e Radio Raheem. Nascono per alterare le consuete relazioni tra corpo, mente e suono e il loro live lo dimostra senza mezze misure: un blend di pulsazioni ritmiche e minimalismi ad alto potenziale evocativo, che trasforma la sala in una nuvola vaporosa e pulsante.
Solo per chi riesce a reggere fino alla fine, Alessandro Gambo – direttore artistico e creativo del festival – prende il controllo della consolle nell’open air per una degna conclusione. È la firma di chi ha saputo orchestrare, in questi quattro giorni, un’ottava edizione di Jazz is Dead! che ha tracciato un’orbita ampia e vibrante di costellazioni sonore, coinvolgendo oltre cento artisti internazionali e locali. Ogni serata è stata un percorso unico, raro nel suo equilibrio tra nomi di fama consolidata e nuove scoperte, un’esperienza che è riuscita a farci provare emozioni intense, come vi abbiano raccontato qui, qui e qui.
Per concludere, ripropongo una riflessione condivisa a fine evento da Luca Bosonetto – Responsabile Cultura di Arci Torino – che, a mio avviso, esprime ciò che questo festival rappresenta per tante e tanti di noi: al Jazz is Dead!, anche il dolore di una società profondamente segnata da un sistema ingiusto può, per un attimo, trasformarsi in bellezza.