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Jazz is Dead! Day 2: il cuore batte sopra il beat

Il secondo appuntamento del Jazz is Dead! al Bunker di Torino prosegue a colpi di beats elettronici, sonorità hip-hop e basse frequenze. Sul palco ShrapKnel, Funk Shui Project feat. Johnny Marsiglia – ma anche Davide Shorty, Ensi e Willie Peyote –, Herbert & Momoko, Egyptian Lover, Los Hermanos e Meg, in tour per celebrare il suoi trent’anni di carriera. Ad aprire le danze l’Orchestra Pietra Tonale, ormai di casa al Jazz is Dead


Prosegue l’appuntamento di Jazz is Dead!, arrivato alla sua ottava edizione dal titolo Infinito, con quella che si può forse definire la sua serata di punta. Non tanto per la qualità degli artisti, che in ciascuno degli appuntamenti della quattro giorni dedicata all’avanguardia musicale mantiene alto e costante il livello dei nomi proposti, quanto piuttosto per la sua veste più “popular” – con le dovute contestualizzazioni dell’aggettivo applicato a questo festival –, chiamata a radunare la fetta di pubblico più ampia ed eterogenea. Giunti al secondo giorno, dopo l’esordio del venerdì, l’atteso appuntamento organizzato da Arci Torino, TUM e Magazzino sul Po al Bunker di Torino continua a sorprendere per la sua proposta musicale, anche se quest’oggi più convenzionale o, se vogliamo, un po’ meno coraggiosa.

Ad aprire le danze l’Orchestra Pietra Tonale, ormai di casa al Jazz is Dead!. Arrivato infatti alla sua quarta partecipazione consecutiva, il collettivo torinese è ormai diventato un appuntamento irrinunciabile per chi affronta il festival con lo spirito che più gli si addice, quello dell’escursionista, alla costante ricerca di nuovi orizzonti sonori. E non è un caso: il gruppo incarna perfettamente l’istinto sperimentale che ai tempi fu del jazz e che si è oggi steso a tutte le altre forme di espressione musicale. Quella orchestrale, ad esempio, è per Pietra Tonale il mezzo ideale per dare forma al caos, al noise, alla più frenetica libertà d’improvvisazione. L’orchestra, apparentemente indomita, manipolata sotto la direzione di Simone Farò sembra acquisire un nuovo significato, trasformando ogni distorsione in una voce del coro: rabbiosa sì, ma densa di significato.

Ma è un gioco, è l’espressione ludica radicata nell’esibizione live di un progetto che in realtà ha anche molto altro da dire. Come ampiamente dimostrato da Disco Uno, il recente esordio discografico del collettivo (che abbiamo recensito qui), l’orchestra funziona perfettamente anche quando delimitata dai perimetri della forma canzone. La voce leggera e aeriforme di Giulia Impache si mescola perfettamente con il comparto strumentale riuscendo a ribaltare all’occorrenza l’esperienza di cui sopra, trasformando improvvisamente il viaggio in un’ascesa eterea, tanto delicata quanto emozionante. Dispiace, infatti, che al collettivo venga sempre riservata solo la prima esibizione della line up, nello spazio angusto – per quanto a suo modo suggestivo – dell’area Club del Bunker. Sarebbe bello un giorno, come gli stessi membri dell’orchestra confessano al termine del live, poterli apprezzare su un palco più grande, come quello del Main Stage.

Ed è proprio sul Main Stage che ci spostiamo per ascoltare ShrapKnel, progetto rap americano nato da una costola della Wreckin’ Crew di Philadelphia. Il duo, formato da PremRock e Curly Castro, ci riporta al sound hip-hop dell’East Coast dei tempi d’oro, tra strumentali tiepide e incalzanti dense di suoni urbani, liriche incisive e una presenza scenica imponente, che non lascia spazio a silenzi né a tentennamenti. Ai microfoni sono solo in due, ma la voce degli MC’s arriva dritta e potente, complici anche i volumi dell’impianto portati agli estremi dal comparto tecnico in regia. Una scelta, questa, sicuramente di grande impatto ma che a tratti rischia di trasformare la partecipazione sotto palco in un’esperienza faticosa. Del resto, il palco del festival diventa ogni anno più grande ed è forse troppo ghiotta la tentazione di portarlo al limite, come a sondarne le possibilità.

Restiamo in campo hip-hop con il revival di un gruppo storico del panorama torinese, che ha fatto delle contaminazioni tra funk, soul, R’n’B, rap ed estetica low-fi il proprio tratto distintivo. Nato nel 2008, il collettivo Funk Shui Project ha negli anni collaborato con diversi artisti della scena rap italiana, dagli esordi discografici con Willie Peyote alle più recenti collaborazioni con Ensi, passando per l’ormai consolidato sodalizio con Davide Shorty il quale ha partecipato anche all’ultimo album Polvere, che vede ospite – tra gli altri – Johnny Marsiglia. E se parlo di revival è proprio perché, pur conservando il focus sulla recente fatica discografica, tutti gli artisti sopra menzionati si sono alternati sul palco, culminando l’esibizione in un concerto collettivo, scandito da liriche fluide e flow dal retrogusto old school. A declinare la suggestione verso una dimensione onirica, la tromba di Giovanni Tamburini scivola calda sui beats di Natty Dub, scanditi dal basso di Alex “Jeremy”, storico fondatore del progetto.

Ma è con Herbert & Momoko, prossimi artisti in scaletta, che i bassi cominciano a vibrare nelle ossa. Ancora una volta un duo, ma ricco di idee, loop, strumenti condivisi e declinazioni elettroniche. Matthew Herbert, tra i produttori e musicisti protagonisti nell’ondata di musica elettronica che ha travolto gli anni 2000, porta sul palco il suo nuovo progetto, nato dalla collaborazione con la batterista e cantante Momoko Gill. Tra linee di basso ossessive, sintetizzatori, keytar, batterie minimali e persino una palla da basket chiamata a scandire il battere con i rimbalzi al suolo, il duo porta in scena per la prima volta il suo nuovo disco, Clay, che uscirà il prossimo 27 giugno per Accidental Records. La voce di Momoko è incantevole quanto inflessibile, composta e complanare. In quello che si rivela un concept live privo di pause, la sensazione è di restare sospesi su una dimensione “altra”, apparentemente senza fine, creata appositamente per farci ballare: gli occhi chiusi, la mente altrove. Al termine del live, con grande ovazione del pubblico, il duo si congeda sventolando la bandiera della Palestina.

Culmine della serata, prima dei dj set di Egyptian Lover e Los Hermanos chiamati a concludere la seconda giornata del festival, è il turno dell’headliner tanto attesa, Meg. In tour per celebrare i suoi trent’anni di carriera, l’artista napoletana ha portato sul palco i brani più significativi del suo lungo e variegato percorso: da L’anguilla, chiamata a testimoniare il ricordo dell’esperienza con i 99 Posse, fino a Simbiosi (Meg, 2004), Distante (Psychodelice, 2008) e Non ti nascondere (Vesuvia, 2022). Non è mancato all’appello, ovviamente, il brano Maria, uscito quest’anno in tre differenti versioni proprio per celebrare il trentennale della cantante. Sul palco, accanto a Meg, i producer Suorcristona e Ze in the Clous, compagni sonori silenziosi quanto decisivi, travolgenti, principali responsabili della danza sfrenata che ha accompagnato il live sotto palco durante tutta l’esibizione, tra canti a squarciagola e urla di approvazione.

Tra un brano e l’altro, non sono poi mancate alcune prese di posizione da parte di Meg. Tra queste, ricordando la manifestazione in occasione del G8 a Genova nel 2001, tragicamente culminata con la morte di Carlo Giuliani, l’artista ha espresso l’urgenza di rivendicare il proprio diritto all’espressione del dissenso, inteso come atto libero e necessario in un paese democratico ma, purtroppo, sempre più spesso oggetto di repressione da parte del governo in carica. Un pensiero, in chiusura, è poi andato a Martina Carbonaro, vittima 14enne di un femminicidio commesso appena pochi giorni prima ad Afragola, in provincia di Napoli. Ancora una volta, in linea con il percorso intrapreso in questi lunghi trent’anni di carriera, Meg sottolinea l’importanza che ha la musica come strumento di espressione, di mobilitazione sociale, di comunicazione attiva e partecipazione collettiva.

Con la promessa di raggiungerlo per ballare insieme la musica de Los Hermanos, Meg saluta il suo pubblico visibilmente emozionata: sarà forse per la celebrazione del suo compleanno, o forse per la felicità di tornare a esibirsi nella città che gli sta tanto a cuore, in cui in passato ha vissuto e che, stando alle sue parole, sente «come una seconda casa».

 

foto di Natalia Menotti

Alessandro Bianco

Giornalista, musicista e Video Editor, classe 1992. Vivo a Torino, in un mondo d’inchiostro e note musicali, di cinema e poesia: da qui esco poco e poco volentieri, ma tu puoi entrare quando vuoi.

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