L’ottava edizione di Jazz is Dead! si apre all’insegna del dialogo tra sperimentazione radicale e radici ancestrali. Dal talk sull’afrofuturismo con Claudia Attimonelli alle sonorità primordiali del progetto Skylla della bassista Ruth Goller, passando per l’ipnosi jazz dei The Necks, le coralità mediterranee delle Tarta Relena, la sensualità queer di Bendik Giske, i glitch di Loraine James e la techno concettuale di Dopplereffekt. Un primo giorno denso, che si chiude con il set di Kreggo, suggellando un patto collettivo fatto di ascolto, rito e presenza
Siamo a fine maggio e il caldo delle 17:30 che si sperimenta al Bunker di Torino è di quelli appiccicosi e densi, primo segnale che anche quest’anno l’estate torinese sarà affilata. Mentre il sole scalda l’asfalto, ad aprire ufficialmente l’ottava edizione di Jazz is Dead! è l’incontro tra Almare e la sociosemiologa e autrice Claudia Attimonelli, dedicato al libro Techno. Ritmi afrofuturisti. Giunto alla seconda edizione, il volume propone una lettura critica delle culture musicali elettroniche contemporanee, ripercorrendo il confronto tra Africa e Occidente lungo le traiettorie che hanno portato la techno – nata dalle tribù metropolitane – a diffondersi dal Nord America all’Europa, dai ghiacci islandesi all’Estremo Oriente, fino alle masserie del Sud Italia e ai paesaggi post-urbani delle metropoli. Un’ottima occasione per approfondire anche l’estetica di Dopplereffekt, il leggendario progetto afrofuturista di Gerald Donald e Michaela To-Nhan Bertel, atteso più tardi nella serata.
Attimonelli, docente di Media e Sound Studies all’Università di Bari, è tra le studiose più autorevoli sui temi dell’afrofuturismo, dei suoni urbani e delle culture transfemministe. Le sue pubblicazioni – tra cui L’elettronica è donna. Media, corpi, pratiche transfemministe e queer (con C. Tomeo, 2022); L’estetica del malessere. Il nero, il teschio, il punk (2020); Techno. Ritmi afrofuturisti (2008-2018); Pornocultura (con V. Susca, 2016, tradotto in 4 lingue) – uniscono analisi teorica e immaginazione politica, intrecciando corpi, suoni e visioni.
Dal palco esterno, ancora poco pubblico quando sale Skylla alle 18:30. In quattro: due voci femminili, una batteria che colpisce e Ruth Goller al basso, figura carismatica anche nella sua quiete. Bassista, cantante, compositrice e ambientalista, Goller è un nome centrale della scena sperimentale britannica. Il suo suono fonde jazz, lirica e post-rock, e il suo percorso l’ha portata a collaborare con Alabaster DePlume, Marc Ribot, Shabaka Hutchings, Sons of Kemet, Damon Albarn e Paul McCartney.
Skylla è il progetto che le permette di esplorare una dimensione più intima e viscerale: un ensemble tutto al femminile nato nel 2021 e presentato in questa occasione con i brani dell’album Skyllumina (International Anthem, 2024). Al centro, un canto senza parole, costruito su sillabe inventate, acuti, sussurri e contrappunti vocali che sembrano attingere a una lingua ancestrale, una sorta di gibberish che affonda nel subconscio collettivo. Un linguaggio che evoca piuttosto che spiegare, tra vocalità ferina e spiritualità sciamanica. Niente maschere, contrariamente all’immaginario che spesso accompagna il progetto, ma le voci restano animalesche: gorgheggi che tagliano l’aria, suoni che sembrano arrivare da sotto il pelo dell’acqua, come se si ascoltasse il canto di creature marine. Il pubblico, ancora sparso, sembra spaesato e insieme magnetizzato. Si entra nel festival attraverso l’istinto.
I The Necks arrivano subito dopo e tutto cambia ritmo: il tempo si distende. Trio australiano attivo dal 1987, difficilmente classificabile tra jazz, ambient, minimalismo e avanguardia, sono noti per concerti che non si ripetono mai uguali, interamente improvvisati. Tornano al Jazz is Dead! dopo il 2019 e, come scrisse l’autore britannico Geoff Dyer sul New York Times, si confermano un grande trio jazz della terra – anche se jazz, qui, è solo un punto di partenza –. Sul palco, piano, contrabbasso e batteria costruiscono lentamente un paesaggio sonoro ipnotico e dilatato. La monofonia del pianoforte – suonato da Chris Abrahams, neozelandese di nascita – apre la strada a stratificazioni sottili, che crescono centimetro dopo centimetro. Non c’è mai un’esplosione, ma piuttosto una progressiva immersione. Il suono culla, ondeggia, si trasforma.
Grande rivelazione di quest’anno è il duo barcellonese Tarta Relena, formato da Marta Torrella e Helena Ros. Salgono sul palco come due figure uscite da una miniatura sacra: tuniche accese – una rossa, una blu – e una presenza scenica che gioca sulla sobrietà, fatta di gesti minimi e coreografati, che sembrano richiamare rituali arcaici, danze votive, liturgie corporee.
Il loro lavoro nasce nel 2016 con l’intento di reinterpretare e attualizzare la musica del folklore mediterraneo. E così nei loro live si ascoltano echi sefarditi, cori gitani, canti medievali, musiche religiose della tradizione greca ortodossa e anche brani originali, che portano tutto questo dentro un presente fatto di elettronica rarefatta e minimalismo. Il risultato è un suono che suona antico ma mai museale, sacro ma mai distante, e che nel disco Es Pregunta (Latency, 2023) ha trovato una sintesi potente. Quel lavoro – che le ha portate sui palchi del Primavera Sound e in cartellone al Sónar 2025 – è un attraversamento poetico che esplora i limiti della comunicazione, i margini tra domanda e risposta, tra sussurro e invocazione.
Tra i momenti più ipnotici del live, un brano ispirato al passo dell’Odissea in cui Ulisse ascolta il canto delle sirene, riletto attraverso le poesie di Giorgos Seferis, che a quelle voci ha dedicato versi pieni di inquietudine e nostalgia. Le sirene di Torrella e Ros non seducono per perdersi, ma per far riemergere ciò che si credeva dimenticato: radici liquide, voci che risuonano nel ventre e nelle ossa. Non è la prima volta che il duo catalano rielabora questa figura mitica: nel progetto Sirenas y robots, realizzato nel 2024 in collaborazione con l’oceanografo Joan Llort e presentato al CCCB di Barcellona, hanno dato voce alle sirene attraverso i dati raccolti da robot marini nel Mediterraneo, immaginandole come messaggere di memoria e resistenza ecologica. Mito, poesia e cambiamento climatico si intrecciano in una narrazione sonora che si riverbera anche qui, sul palco di Jazz is Dead!.
Quando un ragazzo tra il pubblico urla un “hey” a un amico, quel gesto suona quasi violento e il silenzio che gli risponde è corale: non per rigore, ma per protezione. Protezione di un incantesimo, di un tempo rallentato e condiviso. Qualcuno tra il pubblico invita esplicitamente a fare silenzio, a non spezzare l’ascolto. In quel momento, più che in altri, si sente cosa può ancora essere un concerto: un patto tra sconosciuti, un piccolo miracolo di presenza collettiva.
Poi, l’atmosfera si carica di elettricità con Bendik Giske, sassofonista norvegese che ha il dono raro di rendere politico anche un fiato. Gli strati minimi del suo set – pochi effetti, nessun ammennicolo – diventano ipnotici, profondamente sensuali. Si sente l’influenza del Berghain berlinese, ma anche quella della sua infanzia balinese, filtrata dalla teoria queer di José Esteban Muñoz.
A mezzanotte il testimone passa a Loraine James. Il suo live è spigoloso e tenero, pieno di glitch, pause, crolli e riprese. Parte con un’intonazione che richiama lo spiritual jazz, poi si decompone in una miscela di IDM, R&B, frammenti emo e derive hyperpop. È una danza tra vulnerabilità e caos. La sua presenza è discreta, ma nei beat si sentono le radici caraibiche, l’eco dei Paramore, la sperimentazione della scena londinese. Il pubblico si muove, si ferma, riprende. James non concede linearità, ma apre mondi. Il suo EP Clandestine (10k, 2025) con Anysia Kim e il nuovo capitolo del progetto Whatever The Weather sono già cult, e il live lo conferma: una delle voci più importanti della musica elettronica attuale.
Il Jazz is Dead è un biglietto di andata da Londra a Detroit: nell’area clubbing del festival i Dopplereffekt – nome di punta della serata – irrompono come una scossa. Il duo, attivo dalla prima metà degli anni Novanta, è composto da Gerald Donald – storico fondatore di Drexciya, pioniere dell’elettronica afroamericana e artista prolifico sotto vari alias (tra cui Japanese Telecom e Arpanet) – e dalla misteriosa Michaela To-Nhan Bertel, sua partner nei live più concettuali. Donald, spesso associato all’afrofuturismo, ha sempre rivendicato la libertà di non aderire a definizioni precostituite.
Il set si apre in sordina: volumi bassi, suoni trattenuti, un’intenzione quasi clinica. È un’introduzione cerebrale, disorientante, più simile a un esperimento acustico che a un live techno. Ma poi, l’onda: una scarica di bassi, frequenze spigolose e stratificazioni sintetiche investe il pubblico, mandando in frantumi l’attesa. La loro è una techno pensata eppure fisica, che unisce precisione elettronica e tensione visionaria.
I visual sono una parte integrante dell’esperienza: sullo sfondo si susseguono immagini che sembrano evocare afrocyborg in stile Chris Cunningham nel video musicale all is full of love di Björk o Anyma, silhouette di un futuro remoto e al tempo stesso arcaico. Gerald Donald e Michaela To-Nhan Bertel risultano impassibili, avvolti nella loro distanza volontaria: nessuna parola, nessuna concessione performativa. La loro presenza è quella di scienziati del suono, che affidano tutto alla potenza delle macchine.
A chiudere questa ricchissima prima line-up ci pensa Kreggo, produttore biellese trapiantato a Milano, fondatore della label Art-Aud e presenza familiare nei cataloghi di etichette come Lobster Theremin, Return to Disorder e Super Rhythm Trax. Dal 2014 si muove con coerenza eccentrica lungo le pieghe più curiose dell’elettronica underground, con uno stile che preferisce il disorientamento alla coerenza tematica, l’intuizione al compiacimento.
Il suo set al Bunker ha incarnato tutto questo. Kreggo non si è fatto intimidire dal peso dei nomi che lo avevano preceduto e ha saputo ricreare una “dadolata sonora”, come quella evocata dal suo brano Dadolata Mix estratto da Swaying (Nous’klaer Audio, 2024). Dopo questo set non vediamo l’ora di sentire il suo prossimo EP Altro Mood in uscita su Oath. Un lavoro che nasce da esplorazioni recenti e dall’ascolto attento di nuove (e vecchie) influenze – tra cui il jazz – e dalla collaborazione a distanza con il sassofonista Jairus Sharif e il batterista Daniele Patton.
C’è qualcosa di potente che attraversa la prima serata del Jazz is Dead: il coraggio di rompere gli schemi senza dimenticare da dove si viene. La sperimentazione non è mai sterile, ma sempre in dialogo con il folklore, la memoria collettiva. Come a testimoniare che l’avanguardia abbia bisogno di radici per potersi slanciare altrove.
Ma se è vero che la musica può ancora essere un terreno d’incontro, lo è anche il contesto in cui viene prodotta e diffusa. In un momento storico in cui diversi festival europei sono chiamati a rispondere delle proprie connessioni con fondi privati che finanziano guerre e pulizia etnica – come nel caso del Sónar Festival e i legami con il fondo di investimento Kkr, denunciati da Loraine James in un post Instagram del 16 maggio – diventa essenziale prestare attenzione a chi si sceglie di sostenere.
Invitiamo chi legge a consultare le linee guida del movimento BDS (Boycott, Divestment and Sanctions), che offrono criteri chiari per un’adesione consapevole e collettiva al boicottaggio culturale di realtà compromesse.