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Dancer in the Dark: come Lars von Trier e Björk distrussero il concetto di musical

Vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes del 2000, Dancer in the Dark è l’incontro/scontro tra due dei più grandi artisti della contemporaneità. L’anarchia estetica e narratologica di Lars von Trier e l’eclettismo musicale di Björk si uniscono in un film singolare: uno dei più grandi musical di sempre, pur avendo rotto ogni canone di questo genere


Non è una semplice macchina da presa a seguire le gesta di Selma – immigrata ceca trasferitasi negli Stati Uniti col figlioletto Gene –, ma un occhio vivo, reale e curioso di narrare senza filtri una realtà drammatica: la vita di un’operaia, di una donna povera che sogna mentre combatte con la precarietà. L’occhio è quello di Lars von Trier, senza esagerare, uno dei più grandi registi della storia del cinema. Quell’operaia di nome Selma è in realtà Björk e, anche in questo caso, certo non esageriamo a ritenerla una delle voci più potenti e poetiche che la musica abbia mai avuto il privilegio di ascoltare. Un sodalizio artistico che si consuma nel capolavoro Dancer in the Dark, un film che potremmo considerare un game changer nella storia del suo genere, il musical, ma che in realtà è un unicum: un’opera ineguagliabile.

Se ne accorsero al Festival di Cannes del 2000, quando conferirono al film del regista danese la Palma d’oro e premiarono la cantautrice islandese come miglior attrice. L’impatto dirompente di una vicenda straziante come quella di Selma fu evidente. Fu prima di tutto uno schiaffo al musical. La protagonista lo ama, il musical. Lo ama perché, nella dimensione in cui ogni problema può risolversi con una canzone e un balletto, tutto è perfetto. Allo stesso tempo, immaginare di poter interrompere una normale conversazione iniziando a cantare e a ballare, senza un apparente senso, può risultare alquanto ridicolo. Motivo per cui un genere come il musical o lo si ama o lo si odia. Per Selma è certamente un rifugio, un luogo in cui trovare il sorriso, uscire con la testa dalla fabbrica in cui lavora e sognare a occhi aperti, lei che per curare l’imminente cecità del figlio – malattia ereditata da lei, che sta progressivamente perdendo la vista – è partita dalla Cecoslovacchia ed è arrivata nel paese che, anche attraverso il cinema – e i musical –, ha fatto del concetto di sogno il suo principale motore politico e ideologico.

Ma Lars von Trier è un autore che non si è mai curato dei canoni estetici e narratologici della settima arte. Ricordiamo che Dancer in the Dark arriva dopo il rivoluzionario Idioti (1998), unica opera della sua filmografia ad aderire fedelmente al folle Dogma 95, movimento cinematografico anarchico creato dallo stesso von Trier insieme al collega Thomas Vinterberg: una sorta di Nouvelle Vague ma ancora più radicale, dalla resa complessiva decisamente più cruda. Anche Björk, autrice delle musiche all’interno del film, ha sempre cercato di andare oltre le convenzioni del mercato in cui opera. Ascoltandola ci si accorge di quanto sia impossibile incasellarla in un genere, o affibbiarle un’etichetta.

Il risultato è che Dancer in the Dark non è un musical. Non a caso lo stesso Lars von Trier l’ha definito un anti-musical. Inizia con una serie di immagini astratte accompagnate da un’Overture volta a donare epicità a un racconto che successivamente, da primo momento in cui vediamo Selma, rivela un cinema svuotato della sua capacità di abbellire la cupa quotidianità. Assistiamo a una sessione di prove teatrali, in cui la donna canta My Favorite Things – brano composto nel 1959 da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein per il musical Tutti insieme appassionatamente, salito alla ribalta nel 1965 con l’omonima trasposizione cinematografica di Robert Wise –, un classico del genere. Nel film di von Trier, tra un jump-cut godardiano, uno zoom e una macchina da presa così traballante da sembrare ubriaca, il pianoforte suona il brano diegetico in minore, aprendosi al maggiore solo nel finale, quando le parole di Hammerstein recitano «I think of a few of my favorite things, and then I don’t feel so bad», che è l’essenza della musica – e del musical – per Selma.

Il personaggio interpretato da Björk non vive nel mondo ottimista e da lieto fine dei musical a cui siamo abituati – dai classici degli anni ’50 ai vari Grease, Flashdance o Dirty Dancing –, ma in quello maledettamente reale e nichilista di un pessimista cronico come Lars von Trier. Per Selma è allora possibile percepire la musica solo nella propria testa ancora libera di immaginare, partendo dai suoni della sua quotidianità; nel suo caso, della fabbrica in cui lavora. Il testo di Cvalda è per lo più un insieme di onomatopee che descrivono e accompagnano i rumori delle macchine industriali, che col loro ritmo incalzante ispirano a cantare e danzare. L’atmosfera è travolgente e surreale per un film che fino a quel momento – è passata all’incirca mezz’ora dall’inizio – aveva fatto un uso massiccio della cinepresa a mano; ora invece si serviva di un’impostazione da videoclip, con un montaggio frenetico volto a collegare le decine di macchine da presa fisse in vari punti della location (la fabbrica). È uno dei pochissimi momenti all’interno del film in cui abbiamo davvero l’impressione di trovarci di fronte a un musical: qui, l’eclettismo di Björk si manifesta in tutta la sua potenza, accompagnato da un mix di musica sinfonica, cabaret, eletto-pop e industrial. Il risultato è una piccola Broadway proletaria, impoverita fuori, ma ricca dentro. Perché chi ha voglia di cantare e ballare, canterà e ballerà.

Selma sceglie di muoversi negli stilemi del musical – sempre e solo nella sua testa – nei momenti più drammatici della sua storia. In Dancer in the Dark ci sentiamo parzialmente sollevati quando parte una canzone, perché sappiamo di poter esorcizzare insieme alla protagonista il dolore e le pene che ella subisce e subirà. Tuttavia, come abbiamo anticipato, il sollievo sarà solo parziale. L’atmosfera sarà infatti sempre segnata da un neanche troppo sottile strato di orrore, come nella dolce e macabra Scatterheart, dallo spiccato gusto trip-hop, in cui una Björk dalla voce struggente performa tirando fuori tutta la sua anima nel momento in cui Selma ha appena ucciso il poliziotto proprietario della roulotte che quest’ultimo le affitta, tornando in vita per danzare con lei in quei pochi e magici minuti di musica che il film ci concede.

Il musical è il genere dell’illusione e dell’inganno emotivo. Dancer in the Dark è il film che prende il musical e lo svuota di ogni carica stereotipica, rendendolo tuttavia l’unica arma a disposizione di Selma per affrontare col sorriso il suo destino; come nella malinconica 107 Steps, il cui titolo richiama i passi che separano la cella della prigione dal patibolo in cui verrà impiccata.

Ma il sorriso bambinesco sul volto di Björk quando canta, procedendo con la visione, per lo spettatore diviene un’immagine sempre più straziante. Perché quell’illusione altro non è, appunto, che un’illusione. La realtà diversa, e Lars Von Trier lo sa bene. I’ve Seen It All è il brano più famoso tratto dal film, il più intenso, il più commovente. Ancora una volta è un rumore esterno a dare il via alla musica, quello del treno che attraversa la ferrovia su un ponte, mentre Selma e Jeff – il suo timido collega innamorato di lei, interpretato da Peter Stormare – duettano sospesi nella magia. Nella versione su disco, la voce maschile è di Thom Yorke, frontman dei Radiohead. Anche qui, i suoni industriali si fanno ritmo, scandiscono il tempo e si fondono con la poesia della canzone nel momento di massima epifania per Selma.

Se da una parte von Trier scardina le convenzioni del musical, dall’altra si propone di elevare lo stesso genere al contesto drammatico e desaturato di una vita come quella di Selma, in cui non è previsto alcun lieto fine. L’ultimo suo atto prima che il cappio ponga fine ai suoi giorni sarà ancora una volta una canzone, dal titolo emblematicamente tetro: New World, ovvero un atto di liberazione. «This isn’t the last song», recitano le struggenti liriche, che Björk canta a cappella. È la prima e unica volta in cui vita reale e fantasia musicale si intrecciano. Selma sta per morire, ma è felice perché sa che il figlio potrà essere curato. Il suo è un canto liberatorio. L’esecuzione, tuttavia, viene interrotta bruscamente dall’esecuzione della pena, sul vocalizzo più intenso di tutti. Lars von Trier sceglie di apportare sullo schermo le ultime parole che la sua protagonista non è riuscita a intonare, avvolte da un silenzio assordante. Un silenzio che, al pari della musica, è parte integrande della colonna sonora del musical più sovversivo della storia del cinema.

Marco Nassisi

Per me scrivere di musica vuol dire trovare una scusa per ascoltarne tanta, scoprirne di nuova e fare un po' d'ordine nella testa.

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