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Apologia del suono: gli LCD Soundsystem al Todays con un concerto da manuale

Per il secondo appuntamento di Todays al parco della Confluenza di Torino, gli LCD Soundsystem incantano il festival con un live impeccabile, incalzante e suggestivo. Ad aprire i Giulia’s Mothers, Khompa feat. Akasha e Nation Of Language


Ci siamo: Todays 2024, Parco della Confluenza, Torino, produzione Reverse. In calendario il primo grande nome di quest’edizione, dopo l’esordio con la serata a ingresso gratuito di ieri sera. Gli LCD Soundsystem, reduci dal live al Rock En Seine di Parigi tenutosi appena la sera prima, sbarcano a Torino per la loro unica data italiana.

Quest’ultima edizione del Todays ha fatto molto parlare di sé e le polemiche, in parte zittite al rilascio della line up (che a lungo si è fatta attendere), non sono certo mancate. Si dibatte sul prezzo del biglietto, sulla nuova location – abbandonata la storica sede di Spazio211 – e più in generale sul cambio di paradigma di un festival che è ormai un’istituzione a Torino e che proprio per questo sceglie di mantenere il suo nome originale, nonostante l’evidente cambio di prospettiva. Difficile infatti – e forse deleterio – fare un confronto tra le produzioni. Del resto, in questa sede ci occupiamo d’altro, per cui passiamo oltre.

I cancelli si aprono in ritardo di circa una mezz’ora, la coda all’ingresso si allunga rapidamente e al di là delle transenne si avverte l’eco lontana di un soundcheck che si è dilungato oltre il previsto. Basterà un’occhiata al set up sul palco degli headliner, arrivati in ritardo da Parigi, per tirare le somme e ipotizzarne le cause.

Ma andiamo con ordine. Il percorso è breve fino al palco e i Giulia’s Mother si apprestano ad aprire le danze. Il duo, attivo dal 2016, ha il volto di Andrea Baileni – voce e chitarra acustica – e di Carlo Fasciano alla batteria. Il pubblico presente è ancora poco numeroso e il mio primo pensiero è che sia davvero un peccato; il secondo, è che mi sento fortunato. La chitarra di Baileni ha qualcosa di magico. Il suo tocco, se pure delicato, arpeggia deciso sulle corde, in una rara intesa tra virtuosismo e suggestione emotiva. D’ispirazione post-rock, i tempi di ogni brano sono dilatati e c’è tutto il tempo, da questo lato del palcoscenico, di empatizzare con i numerosi effetti della pedaliera, con l’armonia tra le due voci, con lo spettro delle emozioni che inevitabilmente sono richiamate in superficie.

A ridestarci dall’introspezione ci pensa invece Khompa, prossimo artista in scaletta. Accompagnato dai visual di Akasha, il batterista torinese si distingue per il suo live act audio-visuale, basato su un sistema elettronico collegato al drum set che gli consente di eseguire composizioni musicali complesse dal vivo, orchestrando note, effetti, suoni di sintesi e regia video per mezzo di un sistema di sensori applicati sulla batteria, senza l’ausilio di loop o basi pre-registrate. Questo sistema dà vita a un progetto innovativo, che affascina e attrae principalmente per la sua complessità, coinvolgendo lo spettatore nell’esibizione in quanto, incuriosito dalla moltitudine di progressioni sonore, indaga i movimenti del musicista, cercando di intuire quale colpo inneschi ogni composizione. L’artista ha portato in scena il suo ultimo lavoro, Perceive Reality, presentando ciascun brano con la definizione del sostantivo che ne dà il titolo, tratta dal dizionario e proiettata nel maxischermo alle sue spalle: il fil rouge tra i lessemi indaga il rapporto tra la realtà e la sua componente di relatività, mediata di fatto dalla percezione di chi la osserva.

Si entra nel vivo, poco dopo, con i Nation Of Language, giovane band americana di Brooklyn, New York City. Il trio, capitanato – e trascinato, scenicamente parlando – da Ian Richard Devaney, è una DeLorean che ci conduce a cavallo tra gli anni ’80 e ’90: i primi per il suono dei sintetizzatori, per il ricco ausilio di arpeggiatori e per la voce di Devaney, incredibilmente simile a quella di Mark David Hollis, leader dei Talk Talk; i secondi per la logica compositiva tipica della musica elettronica di quel periodo, fondata su pattern ritmici e loop costanti, edulcorati progressivamente dall’inserimento di arrangiamenti riempitivi. Devaney ha una presenza scenica devastante che sfugge ripetutamente ai primi piani delle cineprese, trasmessi sui due visual verticali ai lati dello stage. Silenziosamente, Aidan Noell – ai synth e ai cori – tira le redini armoniche di un concerto esteticamente affascinante e coinvolgente che però, complice anche il sostegno ritmico affidato ai loop di una batteria finta e minimale, alla lunga risulta ripetitivo, se non altro per lo schema compositivo che ne caratterizza i brani. La qualità della band, tuttavia, rimane fuori discussione.

È tempo infine del cambio palco e mai ci fu espressione più azzeccata: il palcoscenico, letteralmente, si trasforma. Una telecamera installata sul soffitto dell’impalcatura riprende lo stage dall’alto, rivelando al pubblico la metamorfosi. La superficie si riempie di un’infinita varietà di tastiere e sintetizzatori – impossibile fornire un numero preciso –, circondata da muraglie di amplificatori. In alto, al centro della scena, un’enorme mirrorball promette di scagliare saette luminose in ogni direzione. È tutto pronto, ora: gli LCD Soundsystem fanno il loro ingresso in scena.

Sulle note di Us V Them comincia il viaggio, un itinerario corale che gli otto musicisti sul palco percorrono attorno – ma anche oltre e attraverso – i molti generi musicali di cui si fanno portavoce, talvolta come precursori, qualche altra come ricercatori, alchimisti e rinnovatori. Perfettamente coordinata, la band è impeccabile nel groove, nei suoni e nelle dinamiche, ma soprattutto negli arrangiamenti. James Murphy, unico elemento apolide sul palco, si aggira lentamente al centro della scena, armato di falsetto e di bacchetta in mano per duettare con Pat Mahoney alla batteria. In prima fila anche Nancy Whang, incantatrice techno-dance delle folle e principale responsabile, accanto alla chitarra di Al Doyle, dell’ipnosi collettiva che ha coinvolto il pubblico, travolto dall’impeto dei loro riff, incastrati in sinergia l’uno sull’altro. La folla, infatti, non smette di ballare.

Da You Wanted a Hit a Losing My Edge, passando per I Can Change e Someone great, la band attinge a ciascuno degli album disseminati lungo il percorso, nel corso di una carriera cominciata all’alba del millennio e intervallata, ahinoi, da interminabili pause di riflessione. Eppure, gli LCD Soundsystem non sono invecchiati di un giorno. Anzi, la band è matura, impeccabile dal punto di vista performativo, sinergica alla stregua della telepatia nell’amalgama delle sue parti. A corredo di un concerto che ha il solo difetto di essere durato troppo poco (almeno in quanto a percepito), l’acustica del luogo – plauso anche alla regia – è perfetta: da ogni angolo di prato, a qualsiasi distanza, i suoni sono puliti, bilanciati, cristallini.

A chiudere il live, dopo un’incredibile Dance Yrself Clean – forse l’apice emotivo del concerto –, la band conclude con New York I Love You But You’re Bringing Me Down e poi, a seguire, l’inesorabile All My Friends. Nessun encore, nessun contentino: dopo un’ora e mezza di emozioni senza fine, la serata si chiude al cospetto di una platea con gli occhi sgranati, sognanti, emozionati. Increduli, agli sgoccioli di un live che ci ha travolti come un treno e che, nello spazio percepito di un battito di ciglia, sembra destinato a lasciare impresso il segno.

 

foto di Natalia Menotti

Alessandro Bianco

Giornalista, musicista e Video Editor, classe 1992. Vivo a Torino, in un mondo d’inchiostro e note musicali, di cinema e poesia: da qui esco poco e poco volentieri, ma tu puoi entrare quando vuoi.

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