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Psichedelia, multiculturalismo e minimalismo cinematografico: bentornato Todays

La nuova veste del Todays Festival 2024 non annulla la sua magia. Nella prima giornata a ingresso gratuito, i progetti solisti di Sasso e Jeremiah Fraites dei The Lumineers inaugurano un viaggio per il mondo alla ricerca dell’unione, sotto la bandiera universale della musica. A tenere alto lo stendardo anche la world music degli Addict Ameba e la psichedelia etnica dei Bab L’ Bluz


È un Todays un po’ particolare quello di quest’anno. Il tentativo da parte della nuova gestione, la Fondazione Reverse – fondatrice, tra gli altri, del Sonic Park di Stupinigi –, di rendere più “europea” una delle più importanti realtà torinesi concernenti la musica alternativa e underground ha portato a grandi cambiamenti organizzativi, a cominciare dalla durata – partiti il 25 agosto, si finirà tra una settimana, il 2 settembre –, passando per il cambio di location.

Non siamo troppo distanti dall’iconico Spazio211, ma non siamo più lì, bensì al Parco della Confluenza, all’intersezione tra il Po e la Stura. Un luogo inedito per i concerti, ma che subito si rivela di notevole impatto estetico. Potersi gustare un bel concerto nel verde con vista su Superga si dimostra una scelta azzeccata. Oltre 20 metri di palco e due ledwall verticali ai lati.

Il primo giorno è a ingresso gratuito, ed è all’insegna della psichedelia. Della line up, infatti, tre nomi su quattro colorano l’atmosfera con repertori che, seppure estremamente diversificati e personalizzati, diventano un pretesto per muoversi e viaggiare in un’altra dimensione. Ma andiamo con ordine.

Ad aprire le danze, puntuale alle 19:00, è Sasso, nuovo progetto solista di Anthony Sasso, polistrumentista torinese con all’attivo diverse collaborazioni, dai Ministri ad Andrea Laszlo De Simone (con il quale ha fondato il duo Anthony Laszlo, prodotto da INRI).

Sul palco ha portato il suo primo album Musica: un viaggio negli anni ’70, in cui l’amore per il prog italiano e i Soft Machine viene espresso in brani frenetici e  vorticosi. Ma il cuore di Sasso batte soprattutto per i Pink Floyd. In altri brani, della chitarra sognante di David Gilmour ne fa quasi una religione. Il suo strumento dialoga col synth e con la seconda chitarra, con la quale alterna numerosi e prolungati assoli. E il pubblico fluttua rispecchiandosi nelle parole leggere e vere di pezzi come Aquila o Musica.

Sasso ha la presenza scenica di chi di palchi ne ha masticati a centinaia. La sua performance – e quella della sua band, con la quale c’è una grande intesa riesce a trasmettere tutta la sua energia ai purtroppo pochi presenti (se proporzionati alle dimensioni del luogo) fino ad allora.

Seguono gli Addict Ameba, da Milano. Sul palco salgono in dieci. Psichedelici nell’attitudine – ma anche in certi aspetti del sound –, il loro è un afro-beat in cui ovviamente la componente ritmica è essenziale. Impossibile restare fermi all’ascolto di cotanto groove. Un groove che non si ferma neanche alla momentanea implosione dell’impianto, che con un botto fa scattare dallo spavento ogni singolo spettatore. E salta tutto. Ma gli Addict Ameba continuano a suonare. La gente batte le mani insieme a loro e balla, libera e spensierata, persa in un mondo senza confini, quello di una band che con il suo ethno-jazz, desert blues, latin rock con tinte funky sostenuto da una portentosa sezione di fiati, vuole rompere ogni barriera, parlando una sola lingua. Perché la musica, come dice il loro frontman, «è l’unica direttrice invisibile in grado di unire le persone, gli animali, le piante, in questo momento in cui siamo tutti sparpagliati per i fatti nostri a fronte di una crisi climatica e a genocidi in mondovisione».

Da sottolineare la frizzante Copelandia, cadenzata da continui cambi di stile e di ritmo, e la traccia di chiusura Look at Us, in cui le parole del poeta Joshua Idehem risuonano in un brano di spoken word nel quale alterna il testo originale in inglese alla traduzione in italiano: un inno al risveglio della coscienza collettiva.

Cala la notte, il pit comincia a riempirsi e un tripudio di fari viola e gialli si infrangono sul palco, col fumo che ne evidenzia le scie. È il turno dei Bab L’ Bluz. Dal Marocco, il loro nome significa “Porta del blues”. Ma sarebbe sbagliato circoscrivere la loro musica esclusivamente all’interno di questo genere. Perché la band capitanata da Yousra Mansour e co-diretta da Brice Bottin è molto di più. Servendosi di strumenti della tradizione Gnawa e Hassani quali il guembri, che Bottin usa come basso  mentre la Mansour suona una chitarra a doppio manico che da una parte è una 12 corde, dall’altra un tipico awicha –, la band fa rock senza se e senza ma.

Stilosissimi, frenetici, energici, in grado di creare un’atmosfera effervescente, i Bab L’ Bluz offrono un live che è un continuo climax di adrenalina, in crescita pezzo dopo pezzo. Si impadroniscono del pubblico che, dipendente dal loro carisma, batte le mani seguendo ritmi sincopati al servizio di brani dai tempi dispari, che variano in continuazione, smaterializzandosi in un’orgia sonora. Verso la fine si sfocia addirittura nel punk, e parte anche un piccolo pogo.

Yousra Mansour si perde in un assolo infinito. Ammaliante, canta e fa cantare; ulula e fa ululare, e il suo ululato è di una potenza espressiva incredibile. Poi un toccante discorso sulla forza delle donne conquista tutti, come l’elogio alla città di Torino, in cui la band ha già suonato una volta e che ama in quanto, nel corso della sua storia, ha saputo mostrare grande rispetto per la diversità e il multiculturalismo. E infine ringrazia gli organizzatori e i tecnici del Todays, indicandoli e chiamando ciascuno con il proprio nome. Applausi, a lei e all’intera band: una vera scoperta.

Sembrava finito tutto, ma all’appello mancava ancora un artista, il main: Jeremiah Fraites, cofondatore e percussionista dei The Lumineers. Grande ospite internazionale? Ovviamente sì… più o meno. Perché dal 2021 Fraites vive proprio a Torino, dopo aver sposato la sua compagna Francesca, italiana. In quello stesso anno è uscito il primo album del suo nuovo progetto solista, che lo vede esclusivamente al pianoforte.

Sul palco è accompagnato da un batterista, un contrabbassista (occasionalmente anche al synth), una violoncellista e una violinista, tutti musicisti provenienti dall’orchestra di Andrea Laszlo De Simone. Jeremiah Fraites aveva già suonato la sua minimal music a Torino in un live più intimo alle OGR (lo ricorda lui stesso), che forse era il mood più appropriato per una performance come questa. Il pit non è particolarmente pieno. C’è chi ascolta, ma anche chi parla col proprio vicino, accompagnato da una musica elegante e da un’atmosfera di stampo cinematografico. Sento uno dietro di me sostenere che gli ricorda la colonna sonora del film Inside Out.

La sua musica ricorda però anche un altro progetto solista, quello di Emanuele Via degli Eugenio In Via Di Gioia; ma gli arrangiamenti non sono particolarmente sofisticati, e non sempre coinvolgenti. Tuttavia, Jeremiah Fraites col suo Borsalino, chino sul piano, entra sempre di più nel mood, trascinandoci anche il pubblico del Todays. Ogni tanto prende in mano il microfono e racconta del progetto e della sua nuova vita, ringraziando umilmente l’organizzazione, Torino, i musicisti che lo accompagnano e la moglie. Suona una sua versione elegante di Heart-Shaped Box dei Nirvana, col violino che segue la melodia di Kurt: orecchie immediatamente drizzate. E infine conclude con qualche pezzo dei suoi The Lumineers. La batteria si fa più dinamica e il piglio è decisamente più coinvolgente. Nell’encore conclude con Ophelia, e la gente canta e si gode la fine di questa prima calda giornata. Una bella atmosfera.

 

foto di Giorgia Mirabile

Marco Nassisi

Per me scrivere di musica vuol dire trovare una scusa per ascoltarne tanta, scoprirne di nuova e fare un po' d'ordine nella testa.

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