Il nuovo album dei Pixies ci spinge a domandarci cosa dovrebbe fare una band storica, blasonata e perfettamente inquadrabile nell’albo del rock per continuare – anche nel 2024 – a fare buona musica, pur sapendo che i tempi dei grandi capolavori sono finiti
Non è mai facile l’approccio al nuovo album di una band storica. Ancora più difficile quando la band in questione è quella creatura proveniente da Boston chiamata Pixies. Stiamo parlando di uno dei pilastri dell’alternative e dell’indie rock americano. I primi due dischi, usciti nell’88 e nell’89, sono capolavori indiscussi. Poi lo scioglimento nel ’93 e la reunion nel 2004. Dieci anni dopo, un nuovo album. Ora, nel 2024, con l’uscita di The Night The Zombies Came, sono più i dischi post-reunion di quelli pre-scioglimento. Spoiler (ahimè, abbastanza scontato): la qualità tecnica produttiva è aumentata; quella compositiva e artistica, progressivamente diminuita. Ed era quasi inevitabile. Ma andiamo con ordine.
The Night The Zombies Came arriva dopo solo due anni dal precedente e deludente Doggerel. Paz Lenchantin ha lasciato la band e al suo posto è subentrata Emma Richardson. Ascoltiamo la sua voce accompagnare scolasticamente quella – da tempo ormai rilassata – di Frank Black nell’opening Primrose e non solo. Il suo basso non è particolarmente rilevante nel songwriting, anche se in un pezzo dalle atmosfere desolate come Chicken il suo contributo è essenziale. In generale, come si suol dire in questi casi, fa il suo, senza infamia e senza lode.
Ad avere ancora una certa presa è invece la chitarra di Joey Santiago, dagli inserti space e psichedelici che ormai sono suoi marchi di fabbrica. Brani come Hypnotised e I Hear You Mary emergono proprio grazie a questi elementi tipici dello stile che ha reso iconico il sound dei Pixies.
Tuttavia, non mancano anche pezzi più energici come You’re So Impatient e la tirata garage rock Ernest Evans, che hanno il giusto tiro. Le ritmiche di David Lovering accompagnano i riff semplici e diretti, inspessiti da una produzione che però è così pulita e precisa da impedire quel coinvolgimento offerto dall’attitudine selvaggia che la band ha incarnato nella prima parte della sua carriera.
E ci siamo: anch’io sono caduto nella trappola del «sì, carino questo nuovo album, ma i primi erano tutta un’altra cosa…». Considerazione banale, lo so, ma è un pensiero che emerge quasi inevitabile durante e dopo l’ascolto di The Night The Zombies Came, del quale in fondo non resta molto altro da dire. È un disco che scarseggia di idee efficaci, che risultino abbastanza interessanti da restare nella testa di chi, se conosce la discografia dei Pixies, non può fare a meno di cadere nel tranello nostalgico del confronto con i primi dischi – su tutti, Surfer Rosa e Doolittle, ma perfino anche con Trompe le Monde, l’album meno interessante della loro prima parte di carriera –.
Ma è sbagliato – se non addirittura stupido – cadere in questi paragoni. Perfino Frank Black, oggi più maturo – o semplicemente invecchiato (il tempo passa per tutti) –, sa che per la sua band sarà impossibile sfornare un capolavoro come quelli dei primi dischi. Anche lui, infatti, fa il suo: quando ha un riff e una linea vocale, inizia a costruirci una canzone. Semplice e funzionale, tutto qui. Ed ecco infatti che, dopo appena due anni da un album dimenticabile come Doggerel, ne esce uno altrettanto dimenticabile, i cui unici guizzi – ribadisco, tutti made by Joey Santiago – non sono che piccoli addobbi sonori pensati per impreziosire l’insieme – come ad esempio in The Vegas Suite – ma che, tuttavia, non sono sufficienti ad assolvere il disco dalla presenza di brani scadenti, come Kings of the Praire o Johnny Good Man.
In conclusione, ascoltando The Night The Zombies Came si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un album sbrigativo, composto senza fare un minimo di selezione. Se da una parte fa piacere realizzare che band come i Pixies sono ancora attive e vogliose di scrivere nuova musica; dall’altra, se il risultato è questo, forse sarebbe meglio aspettare qualche anno in più, per dedicare una cura maggiore alla composizione dei brani. Una frequenza di pubblicazione così alta, infatti, in casi come questo non sembra motivata da un’eccessiva forma di entusiasmo, quanto piuttosto dalla premura di non cadere nel dimenticatoio.