A tre anni dal tragico incidente che le è costato la vita, l’eredità di SOPHIE si concretizza in un’uscita ufficiale e postuma che purtroppo non sempre restituisce il suo estro e la vivace avanguardia. Un ultimo canto di una sirena di cui conosciamo la voce, ma che ci arriva da molto (forse troppo) lontano
Ci sono due assunti fondamentali da tenere ben presente per andare a capire che significato ha SOPHIE, ultimo album della produttrice scozzese omonima. Il primo riguarda strettamente cosa l’artista ha significato, significa tutt’ora e significherà in futuro: dai primi esperimenti fino alle grandi collaborazioni con eccellenze assolute del pop (Madonna, Charli XCX, giusto per citarne due enormi), passando per il gigantesco vuoto dovuto dalla dipartita prematura della musicista in un incidente in Grecia nel gennaio del 2021. Sarebbe riduttivo dire che il suo è stato uno dei due – insieme a quello di A.G. Cook – contributi più rilevanti del movimento hyperpop o, comunque, di tutta quella musica elettronica smaccatamente pop, orgogliosamente queer e deliziosamente massimalista.
Quello di SOPHIE e del mondo di nomi che le gravita(va) intorno è un successo oggi sotto gli occhi di moltissime persone, che hanno imparato a riconoscere quel suono e ad apprezzarlo, fino a renderlo di fatto il più rappresentativo dell’epoca che va dalla seconda metà degli anni ’10 in avanti. Suoni gommosi, distorti e che rimbalzano tra una suggestione e un’altra senza apparente soluzione di continuità, ma che invece contengono al loro interno ragionamenti molto complessi sulla condizione attuale della musica di consumo e dell’uso utilitaristico e mercificato che ne fa l’industria da un lato, dall’altro chi l’ascolta (andatevi a cercare il progetto QT dell’etichetta PC Music per un esempio perfetto di questo ragionamento).
Il secondo aspetto che ritengo sia necessario considerare è che, normalmente, si tratta di produzioni ufficiali lanciate a distanza di tempo dalla morte di chi le ha create. A prescindere dal giudizio personale di ogni persona – legittimo e sicuramente rispettabile – la storia ci insegna che anche quando questi lavori sono realizzati nell’assoluto e totale rispetto per l’autore e per la sua opera, è assai probabile che risultino imprecisi, incompleti o che non rappresentino al cento per cento quello che l’artista era. Ovviamente, è impossibile che la visione di una persona scomparsa possa essere totalmente mantenuta, anche quando il lavoro viene celebrato come già abbondantemente pronto prima della dipartita: mancherà sempre quel guizzo, quel realismo e quella veridicità che hanno contraddistinto i lavori precedenti.
Insomma: quello degli album postumi è sempre un territorio delicato. Questo anche senza abbarbicarci in complottismi di avidità e di volontà di spremere ipotetiche galline d’oro. Nel caso specifico di SOPHIE, partiamo da quanto dichiarato da Benny Long – fratello della musicista e suo collaboratore storico in ambito masterizzazione e mix –: «il disco era pronto al 90% quando SOPHIE era ancora viva». Badate bene: sono certo che Long sia in buona fede con la sua dichiarazione e non voglio nascondere nessun tipo di malizia in questa sede. Va però detto che, al netto dell’ascolto dell’uscita così com’è, sorgono alcuni dubbi non tanto sulle sue parole quanto sull’effettiva natura del prodotto.
SOPHIE, infatti, risulta chiaramente incompleto. In alcuni punti appare quasi più una collezione di bozze piuttosto che un disco con una sua coesione e una specifica direzione. I suoni al suo interno sicuramente si collegano ai lavori precedenti dell’artista scozzese, ma a più riprese si percepisce la mancanza di una rifinitura, tratto invece distintivo di tutto quello che è venuto prima. I brani – che sono tanti, troppi, in un album che risulta piuttosto lungo – a volte appaiono più come una idea da sviluppare, una nota appuntata da qualche parte, anziché un concetto che ha un inizio e una fine. La struttura stessa del disco richiama questa sensazione: parti più oscure si alternano ad altre più pop; nel mezzo, contesti techno molto spinti. Il tutto senza amalgama, privo di quel collante che da SOPHIE sarebbe invece assolutamente lecito aspettarsi.
Se comparato, poi, con il precedente Oil of Every Pearl’s Un-Insides, questo album assomiglia ancora più a una demo o, comunque, a un prodotto che andava trattato come incompleto. Se fosse stato commercializzato come tale, SOPHIE probabilmente avrebbe assunto un senso diverso: una collezione di appunti che la produttrice ci ha lasciato, piuttosto che un lavoro a cui possiamo davvero accostare la sua firma. Gli elementi che riconducono a lei ci sono ma sono sparsi, poco coesi e difficilmente incasellabili nella dicitura “album”. A riprova di ciò, le troppe collaborazioni, usate in modo troppo intensivo e poco coerente. Con molta probabilità, SOPHIE aveva davvero intenzione di includere queste collaborazioni nel disco. Anzi, ne sono sicuro. Tuttavia, appaiono un po’ posticce e sembra ne manchino tante altre, importanti e necessarie per decifrare e descrivere la sua carriera, cosa che questo disco sembra proporsi di fare.
Più che per un’eventuale operazione cash grab o una mancanza di rispetto per l’artista, SOPHIE risulta un’operazione riuscita solo a metà, principalmente per il modo in cui è stata posta sul mercato. Se anziché di un album si fosse trattato di un mixtape, il risultato e la percezione di pubblico e critica sarebbero stati molto differenti. I suoni tipici di SOPHIE sono lì, percepibili. Ma lo è altrettanto la sensazione che quel guizzo così prominente, tratto distintivo di un’artista in qualche modo celebre e avanguardista per il suo modo di intendere la musica, non sia totalmente presente a causa di un mancato sviluppo dei brani e del progetto in generale.
Per concludere: il difetto principale di SOPHIE è forse una sbagliata intestazione, un’errata catalogazione nel mercato discografico che tuttavia non compromette l’eredità dell’artista, ma anzi può essere l’occasione per riscoprirla e celebrarla ancora una volta. Sarebbe stato meglio, probabilmente, utilizzare questo materiale per altri scopi;in ogni caso, il motto «msmsmsm forever» resta valido, monito di un’artista la cui eredità e importanza non spariranno mai. Il canto della sirena lo avvertiamo, lo sentiamo. È lontano, ma l’importante è che ci sia.