A un mese dall’uscita del nuovo album Wild God, ripercorriamo la parentesi meno nota e più dark del poliedrico cantautore australiano Nick Cave: i suoi anni berlinesi e l’incontro con la sacerdotessa della no wave, Lydia Lunch
Dietro ogni film c’è sempre un mondo, ma ci sono certi film che di mondi dietro ne hanno centinaia. Uno di questi è Il cielo sopra Berlino, il capolavoro metafisico di Wim Wenders uscito nelle sale nel 1987, ispirato alle Elegie Duinesi di Rainer Maria Rilke. Come un caleidoscopio, cambiando il filtro cambia ogni volta la lettura, che può essere storica, filosofica, ma anche architettonica e musicale. E da quest’ultima partiamo, in particolare da quella scena iconica che vede Damiel – l’angelo caduto – entrare in un locale scuro e fumoso dove si sta svolgendo un concerto. Il buio è attraversato dalla luce calda dei lampadari e scandito da una serie di colonne. La scena fu girata nei locali dell’Hotel Esplanade, storica venue Belle Epoque che fu sventrata dai bombardamenti diretti contro il centro nevralgico di Potsdamer Platz nell’inverno del ’44. Se vi è capitato di vedere il film, vi ricorderete forse della dolcezza con cui il vecchio Homer rievoca Potsdamer Platz, la cerca e non la trova perché nella sua mente è un groviglio luccicante e brulicante di vita, mentre in quel momento è solo macerie e devastazione. Non tanto un luogo fisico, quanto – ormai – un luogo della mente.
Tornando all’Esplanade, dalla furia dei bombardamenti si salvarono poche sale che furono ristrutturate con l’intenzione di darvi nuova vita e riportarle al vecchio glamour. Tuttavia, di lì a poco, nel 1961, fu eretto il muro nelle immediate vicinanze e calò una spessa coltre buia sui fasti dell’Hotel che continuò però a essere utilizzato come set cinematografico. Ed eccoci alla nostra scena, Damiel/Bruno Ganz entra cercando Marion, la sua amata mortale, ma nella sala si intravede solo un’infilata di teste cotonate tutte uguali e spettatori vestiti di scuro. Marion è sotto il palco, vestita di rosso. Il rosso richiama la camicia del cantante, un tipo dall’aria spettrale e dagli spessi capelli neri che emerge dal buio sul palco. È un giovanissimo Nick Cave che afferra il microfono mentre partono le note inconfondibili e ossessive di quello che – per me – è uno dei suoi capolavori in formazione con i The Bad Seeds, From Her to Eternity.
Le note gelide di apertura del pianoforte sono i passi di una donna sul pavimento di legno, l’io narrante al piano di sotto la sente piangere ogni notte, beve le sue lacrime che scivolano tra le assi di legno e l’ossessione cresce per lei come un martello che lo consuma. Sui battiti – che col progredire del pezzo assomigliano sempre di più a dei colpi disperati assestati contro un muro – si innesta la voce nera e quasi animalesca di Nick Cave. Questo pezzo rappresenta uno snodo fondamentale nella carriera di Nick Cave and The Bad Seeds, non solo perché ha allo stesso tempo un tessuto cerebrale e sanguigno, una texture carnale fatta di una violenza palpabile, ma anche perché è il simbolo della transizione e della nuova direzione musicale di Nick Cave. Nel 1983, Cave aveva infatti chiuso l’esperienza con i The Birthday Party, animali da palcoscenico assetati di caos – quest’ultimo inciso da leggersi con toni quasi nostalgici, lo dico a scanso di equivoci: amo questa parentesi da baccanale anarchico di Cave –, per esplorare nuovi percorsi musicali. Attorno al nuovo progetto solista che lanciò assieme all’ex Birthday Party Mick Harvey si coagularono nomi emergenti della scena avantgarde dell’epoca, quali Barry Adamson (Magazine), JG Thirlwell e Blixa Bargeld (Einstürzende Neubauten), che con le sue chitarre astratte e geometriche contribuì a imprimere una direzione meno fisica e più intellettuale alla ricerca musicale dei neonati Nick Cave and The Bad Seeds (facciamo NCTBS per comodità?).
Per apprezzare il nuovo corso dei NCTBS è necessario però capire la portata caotica dei The Birthday Party, band australiana pioniera di un protodark radicale, contrappunto osceno e violento a modelli dark più eterei come i The Cure.
Delusi dalla freddezza della scena post punk londinese, i TBP volsero lo sguardo all’America, attingendo a un certo punto dall’immaginario gotico americano, dai fumetti e dalle sonorità blues, impastando tutto in salsa abrasiva con un tocco di cabaret noir. La copertina di Junkyard è un mostro psicopatico che guida una dragster in fiamme, omaggio all’iconografia dei The Cramps le cui sonorità psychobilly (o meglio, voodoobilly) vengono riprese anche nel pezzo di punta dell’album, il vampiresco Release the Bats. Mutuando le parole di Simon Reynolds, il mondo dei TBP è vivido, gotico e marcio, un «paradiso corrotto infestato di immondizie e ratti» – ce lo raccontano il blues decadente di She’s Hit e l’affresco morboso in stile Southern Gothic di Junkyard, la mia preferita –; già in questa fase Cave esplora il Vecchio Testamento mescolando i temi della dannazione e del castigo in un lugubre pastiche goth/tribal/rock.
L’anarchia totale dei TBP fa sì che scatti la scintilla tra la band australiana e la regina della no wave newyorkese Lydia Lunch durante un sanguinoso concerto al The Venue a Londra nel 1981, contenuto nell’EP Drunk on the Pope’s Blood/The Agony is the Ecstasy. Sanguinoso in senso letterale, Cave si lanciò in un furibondo crowd surfing, uscendone ammaccato e con la schiena coperta di sangue.
Da questo incontro nasce, nel 1983, una delle esperienze musicali meno note, ma più significative dell’epoca, The Immaculate Consumptive: band dalla vita brevissima (3 giorni, 3 concerti di cui due nel leggendario club newyorkese Danceteria) che ha unito in questa folgorante capsula musicale Nick Cave, Lydia Lunch, J. G. Thirlwell e Marc Almond. Mettetevi il cuore in pace, non esistono registrazioni ufficiali, solo preziosi bootleg e racconti ammantati di leggenda di chi ha avuto la fortuna di trovarsi la notte di Halloween dell’83 al Danceteria.
È il canto del cigno dei TBP: Nick Cave inizia a esplorare percorsi musicali autonomi; nel 1983 è lui la penna – e la voce – dietro a quattro brani dell’album Burnin’ the Ice dei Die Haut, band che da diverso tempo collaborava con i TBP. Cave condivide l’appartamento di Kreuzberg con il bassista dei Die Haut, che descrive il collega australiano come un tipo tranquillo che però mangia poco e parla poco, spesso a corto di soldi. Cave è travolto dal fermento artistico di Berlino ovest e frequenta locali cult della scena underground, come il Risiko, storico club di Schöneberg in cui pare che Nick Cave si presentasse puntualmente ogni sera, spesso assieme all’amico Tracy Pew che si portava il Jack Daniels da casa. E non era l’unico, il Risiko annoverava tra gli aficionados lo stesso Wenders, Jim Jarmusch e Christiane F.; dietro al bancone alla spillatrice anche un patibolare Blixa Bargeld con cui Cave avvia la collaborazione artistica alla base dell’esperienza The Bad Seeds. Se vi incuriosisce questa parentesi storica e musicale, B-Movie: Lust & Sound in West-Berlin (1979 – 1989) di Mark Reeder è un allucinato docufilm sulla scena musicale underground di una Berlino in piena guerra fredda, con prezioso materiale d’archivio e una colonna sonora costruita su figure chiave della Neue Deutsche Welle.
In questa playlist troverete i pezzi di Nick Cave citati in questo articolo e qualche riferimento musicale legato alla Berlino raccontata nel docufilm B-Movie.
Come fa notare Reeder, con la caduta del muro a Berlino si chiude un’epoca non solo storica, ma anche artistica: la città si svuota e si esauriscono gli impulsi che erano stati la ragion d’essere della scena musicale del decennio precedente, Berlino è pronta alla metamorfosi techno. Molti artisti abbandonano la città e così fa anche Nick Cave in partenza per il Brasile, non senza aver lasciato dietro di sé una consistente eredità berlinese, fatta di un romanzo e diversi album incisi con la neonata band The Bad Seeds, che risentono profondamente – e positivamente – del clima berlinese anni ’80. Penso a From Her to Eternity, il primo album nella nuova formazione, ma anche The Firstborn is Dead, ambientato in un’America elettrica e omicida in cui con i toni zombeschi da cantastorie maledetto Cave presenta una lugubre parata di dannati ispirati al blues più classico. Anche negli album successivi – Kicking Against the Pricks, Your Funeral…My Trial e Tender Prey – Cave mantiene le suggestioni americane già viste nella parentesi TBP, innervandole di krautrock e new wave. Se dovessi indicare un momento in cui la carriera di Cave e la sua ricerca musicale subiscono un cambiamento è proprio questo, 1988-89: durante la lavorazione di Tender Prey, il nostro si disintossica e con la caduta del muro decide di abbandonare quel vortice morboso e allucinogeno che era Berlino. Restano alcuni dei capisaldi che lo accompagneranno in tutta la sua carriera, come la simbologia biblica, la matrice blues e una vena gotica che intride tutta la sua produzione, ma gli spigoli della sua musica si smussano in favore di ricerche sonore più rarefatte e morbide.
Ma questa è un’altra storia…