A quattro anni dal precedente album, Belaya Polosa è un’evoluzione per i bielorussi Molchat Doma, che abbandonano la produzione lo-fi degli esordi e abbracciano un sound più internazionale, pur rimanendo fedeli alla loro lingua e alla loro poetica
Senza girarci troppo attorno, è probabile che se la loro Sodno non fosse diventata virale su TikTok, e l’album Ėtazi non fosse stato spinto dall’algoritmo, a quest’ora i Molchat Doma sarebbero ancora uno dei tanti nomi all’interno di quel gigantesco calderone di band post-punk dai titoli in cirillico sperdute nei paesi dell’ex Unione Sovietica, che col loro sound freddo come un gulag sanno rievocare un’epoca perfettamente inquadrabile nel panorama storico ed estetico mondiale (palazzi popolari, brutalismo, desolazione).
Ma forse non è proprio così. A ripensarci, c’è un elemento che è realmente in grado di distinguere la band di Minsk dal resto della scena: la credibilità. I Molchat Doma infatti vengono dalla Bielorussia, che dopo il crollo dell’URSS ha cercato immediatamente di rigettare i valori democratici che gli altri paesi del blocco orientale stavano cercando più o meno di applicare. Il risultato è che Aljaksandr Lukašėnka è al potere dal 1994: Egor Škutko, Roman Komogorcev e Pavel Kozlov non hanno mai smesso di vivere sotto dittatura. C’è dunque un senso di verità che traspare dalle loro canzoni, così alienate ma fortemente critiche verso lo scenario socio-politico in cui vivono. Canzoni che non sono solo vestite dell’immaginario sovietico, ma ne sono impregnate fino al midollo.
Inoltre, la musica dei Molchat Doma non si ispira esclusivamente al suono di band storiche dell’epoca e del luogo come i Kino, ma anche a nomi occidentali quali Joy Division, Cure e Depeche Mode. Forse è anche questo a rendere la band così accessibile al grande pubblico, che si perde nei loro testi oscuri e nelle atmosfere lo-fi coldwave volte a immergerlo in un’epoca così complessa ma decisiva per la storia non solo politica, ma anche del costume: le loro cover album – in special modo quella di Ėtazi – dalle architetture brutaliste, sono estremamente suggestive ed evocative.
Le cose ora sono un po’ cambiate. Škutko e soci risiedono a Los Angeles, lontani dal regime che si sono inimicati con la loro musica. Nella città californiana hanno registrato il loro quarto album Belaya Polosa, per Sacred Bones Records.
A quattro anni dal poco ispirato Monument, la band si presenta con un album che già dall’artwork sembra esprimere un’idea che non è più esclusivamente legata al passato dell’immaginario che abbiamo imparato a conoscere grazie a loro, ma al futuro. Siamo di fronte a un’altra architettura brutalista che, nel suo appartenere a un’epoca ormai andata, sembra venire da un mondo distopico.
La traccia d’apertura Ty Zhe Ne Znaesh Kto Ya presenta una serie di elementi che ampliano lo spettro sonoro dei Molchat Doma. Il territorio è quello dell’EBM, ma meno lo-fi e più elaborato, in special modo nei ritmi di una drum machine martellante che, unita ai synth dall’andatura quasi militaresca, sembrano quasi rimandare ai DAF, ma con più poesia. La voce di Škutko resta oscura e si muove su un tappeto sonoro che ricorda con maggior insistenza i Depeche Mode di Violator, con tinte industrial dei primissimi Nine Inch Nails. Il pattern si ripete nella successiva Kolesom, ma in questo caso il sound ricorda anche il krautrock dei Kraftwerk.
Il singolo Son è la terza traccia, anche se è caratterizzata da un’introduzione ambient che sa molto di opening track. È forse il brano più puramente Molchat Doma dell’album. La capacità della chitarra sognante e riverberata di Komogorcev di comunicare col basso di Kozlov è una carezza per le orecchie, più dolce ma simile all’intesa che Pete Townshend aveva con John Entwistle negli Who, che li rendeva così indipendenti e coordinati allo stesso tempo. Il ritornello rivendica l’importanza del sogno. Come dice Škutko: «Scambierei tutta la mia vita per un sogno».
Giro di chitarra sensazionale nella title track Pelaya Polosa a parte, l’interludio Beznardezhniy Waltz è senz’altro il brano più tetro dell’album: una sinfonia ambient caratterizzata da un semplice motivo Mi-Si-Si in loop lungo tutta la traccia. L’idea è quella di creare un’atmosfera horror sulla quale i synth acuti e striduli conversano con i potenti bassi, diventando la colonna sonora dell’oscurità della casa abbandonata che i Molchat Doma, lontani dalla loro comfort zone ma incredibilmente a loro agio, ci fanno esplorare.
Prosegue l’audace esplorazione sonora della band con Chernye Cvety, dal piglio synth-wave e dalla chitarra elegante, che sopra una drum machine di stampo trip hop dona un ritmo incalzante e dance al brano.
Non tutti i brani risultano particolarmente memorabili. III e Ne Vdvoem vanno un po’ a perdersi nel vuoto, finché si arriva a Ya Tak Ustal: melodica, malinconica e maledettamente nostalgica nel suo rievocare esplicitamente gli anni ’80.
Per quanto non sia il brano migliore dell’album, l’ultimo Zimnyaya incarna la sintesi dell’intero mood espresso in quest’ultimo disco targato Molchat Doma. C’è il post-punk, l’EBM, la dance-wave. La chitarra segue perfettamente la melodia vocale romantica di Škutko ed entrambe, mano nella mano, viaggiano verso la conclusione.
Belaya Polosa è un’evoluzione per i Molchat Doma, che abbandonano la produzione lo-fi degli esordi per abbracciare un sound più internazionale, pur rimanendo fedeli alla loro lingua e alla loro poetica. Più articolato di Ėtazi, non raggiunge comunque i suoi livelli di essenzialità espressiva, ma dimostra ugualmente le capacità della band bielorussa di spaziare tra i generi mantenendo salda la propria identità, quella che li ha distinti dalla massa.