L’interpretazione di brani che appartengono alla conoscenza comune è una caratteristica intrinseca del jazz. Un intero filone che ha preso piede dagli anni ’60 ha cominciato a usare temi di stampo classico su cui improvvisare: tra i più grandi interpreti vi è Eugen Cicero, virtuosistico pianista rumeno purtroppo poco conosciuto
L’interpretazione di brani che appartengono alla conoscenza comune è una caratteristica intrinseca del jazz: come ben si sa, gli stessi repertori jazzistici sono pieni delle songs dei musical di Broadway. I jazzisti, in particolare quelli delle prime generazioni, avevano anche una profonda conoscenza della musica colta europea, frequentando i vari teatri d’opera, come Sidney Bechet e Jelly Roll Morton; alcuni di loro invece l’avevano proprio studiata, formandosi tecnicamente, come Art Tatum.
Ciononostante, senza contare le improvvisazioni, sono pochi i casi in cui brani di repertori classici siano stati usati come temi su cui improvvisare. Un esempio: Django Reinhardt e Stéphane Grappelli con il primo movimento del Concerto in re minore per due violini e orchestra BWV 1043 di Johann Sebastian Bach.
Reinhardt e Grappelli potrebbero essere considerati i pionieri di ciò che si sarebbe poi chiamato “classical jazz”, definito dallo studioso Gunther Schuller «un intero filone di brani swing che tentavano di fare “a jazz” i classici». Per circa più di vent’anni solo sporadicamente furono usati temi classici, fino a quando Jacques Loussier non cominciò, all’inizio degli anni ’60, a interpretare le opere di Bach con il suo trio jazz in Francia. All’inizio questa scelta provocò indignazione tra i custodi della musica classica, ma presto i dischi di Loussier, che combinavano bellissime melodie di Bach con uno swing rilassato, furono venduti in milioni di copie. A seguire anche le voci degli Swingle Singers cominciarono a interpretare classici di Bach e dintorni con brillantezza.
Ma, tra tutti, chi dovrebbe apparire nel novero dei maestri del classical jazz è un pianista poco conosciuto, noto per lo più in Germania, dove ha operato di più, e in Giappone: il pianista rumeno Eugen Cicero, un musicista che preferisce trasferire la musica classica al jazz. Ciò va aldilà della mediocre intitolazione “musica classica jazzizzata”, che indicherebbe una fusione meramente kitsch.
Soprannominato Mr. Golden Hands per la sua grande abilità tecnica, Cicero ha cominciato in un periodo in cui l’utilizzo di temi musicali di stampo classico stava già prendendo piede. Loussier era sul mercato già da sei anni, ma il pianista rumeno riuscì a farsi largo portando la musica classica in modo diverso. Nonostante le analogie di fondo, Loussier e Cicero svilupparono degli stili autonomi e differenti, pur lavorando sullo stesso materiale. Loussier, notevolmente influenzato da Glenn Gould, si soffermò di più su Bach, interiorizzandolo e dandogli dignità quasi ritualistica nei suoi concerti, ma allo stesso tempo nella sua lunga carriera si mise in gioco interpretando anche altri compositori; inoltre, ogni composizione era curata nei minimi dettagli e ogni arrangiamento era annotato in tutte le disposizioni.
Cicero, a detta di tutti i musicisti che collaborarono con lui, era solito organizzare le sue opere basandosi solo su qualche indicazione, a mo’ di canovaccio, rendendo così i suoi concerti una sorta di piacere artistico sia per la sua spontaneità, sia per l’entusiasmo verso l’improvvisazione con cui arrangiava ed eseguiva i suoi pezzi; ogni concerto, poi, era suddiviso in un repertorio di opere selezionate tanto per i fan della musica classica quanto per i puristi del jazz. Considerato da molti un genio, Cicero amava la musica così come la gente; voleva sempre suonare per il “suo” pubblico, per incantarlo, e non voleva mai suonare per se stesso. Qualcuno inoltre l’aveva definito l’Oscar Peterson europeo, mentre altri si chiedevano come mai non fosse mai finito negli annali insieme al grande maestro.
Il suo primo disco Rokoko Jazz del 1965 raccoglie in sé ed esprime, in forma potenziale, quella poetica musicale che poi avrebbe caratterizzato e segnato tutta la sua carriera. Il disco si apre con il Solfeggio in Do minore, H. 220 di Carl Philipp Emanuel Bach. Lo scorrere delle quartine di semicrome della melodia permette di incastrarsi bene nella velocità, lasciando inalterato il ritmo della composizione originale. L’accompagnamento della batteria al doppio del tempo permette di catalogare il brano nel cosiddetto up-tempo jazz, mentre il contrabbasso ne scandisce i quarti (o il 1° e il 3° quarto del tempo raddoppiato), giocando sul I e V grado all’inizio, per poi assecondare il basso del pianoforte. Una volta finita l’esposizione, mentre il brano sembra finire, il pianoforte e la batteria eseguono un’improvvisazione del tema all’unisono, questa volta marcato di swing; poi, il contrabbasso entra con il walking accompagnando, insieme alla batteria, l’assolo del pianoforte.
Cicero eseguiva spesso il Solfeggietto e molto spesso lo attaccava ancora più velocemente, come si vede nel suo ultimo concerto televisivo, al Subway Club di Köln (Colonia) nel 1997, anno della sua morte, in cui suona il brano nella stessa versione di trent’anni prima. Ascoltando i suoi concerti si può intuire come Cicero si divertisse a fare sua l’arte della citazione, usando temi classici, jazz e popolari, volendo quasi raggruppare tutti generi sotto un’unica musica. In particolare, nel Solfeggietto di quest’ultimo concerto cominciò a improvvisare citando Softly, As in a Morning Sunrise – tema di Romberg e Hammerstein II – per poi sfruttare la cellula ritmica, ancora più veloce, della prima battuta del Solfeggietto come puro virtuosismo (con faccia divertita del contrabbassista), continuando con il tema del Preludio e Fuga n. 2 di Bach padre, e così via. Il Preludio, che tra l’altro è presente nel disco In Town con il titolo Und Bach?, registrato lo stesso anno di Rokoko Jazz, ha subito lo stesso trattamento del Solfeggietto; ma, a differenza di questo, viene arricchito da una forte presenza di note blue.
Eugen Cicero interpreta brillantemente uno stile registico, concentrandosi deliberatamente su tensioni e stati d’animo e lasciando che i venerabili maestri del Barocco, del Classicismo e del Romanticismo risorgano sul palcoscenico della sua tastiera ed entrino in un dialogo creativo con le star dell’era dello swing jazz. Combinando i classici originali e l’interpretazione jazz, i temi e le melodie acquisiscono chiarezza e nitidezza in un modo che è originale e raro. Cicero, a cui piace dare un’interpretazione “fedele all’opera”, con una finezza tecnica e artistica mozzafiato, collega di fatto due musiche secolari, chiudendo il cerchio con l’emergere della parte classica che è parte intrinseca, in qualche modo, della musica jazz.