Hanno ucciso l’Uomo Ragno – La leggendaria storia degli 883 racconta di un mondo che non esiste più, in una riuscita operazione nostalgica adattata all’emotività del presente
L’Italia dei primi anni ’90 era connessa passivamente da giornali, riviste, radio nazionali FM e televisione con sei canali e qualche videocassetta. La socialità proattiva avveniva attraverso metodi che sembrano di cento anni fa: con il telefono fisso – quello a disco prodotto dalla SIP –, con la posta tradizionale o presentandosi fisicamente sotto casa di un amico o nei luoghi di aggregazione.
In questo contesto, paradossalmente, la cultura pop era estremamente condivisa: se avevi visto un film in televisione, se una pubblicità aizzava un tormentone, il giorno dopo ne parlavano tutti nella tua classe, raccontando le gesta di Jean-Claude Van Damme o canticchiando il motivo dello spot di un rotolo di alluminio.
Era il canto del cigno di un’era che sarebbe stata dominata da internet e dall’informatica nel decennio successivo.
Nell’estate del 1992 avevo otto anni e mi trovavo a passarla in un minuscolo paesino dell’entroterra siciliano. Persino nel luogo più remoto d’Italia le novità le sentivi nell’aria, che arrivassero da una radio sempre accesa in una sala giochi con i gettoni a duecento lire, da uno degli ultimi juke-box sopravvissuti nei bar, dalle casse di una giostra o da un Dj improvvisato a una festa di compleanno: la musica era qualcosa di vivo nelle esistenze delle persone dell’epoca.
Lo stereo era qualcosa di centrale nelle case delle famiglie: chi aveva un impianto valvolare completo, chi un vecchio Kenwood collegato alla presa, chi il Walkman regalato a natale e condiviso con la sorella o l’autoradio estraibile sempre sotto la mano destra, come cantava nove anni prima Toto Cutugno.
In quell’estate, mentre impazzavano i primissimi successi dell’eurodance, il testo che stavano imparando tutti i giovanissimi a memoria non era di un disco dei Queen o un successo di Sanremo: era quello di Hanno ucciso l’Uomo Ragno.
In autunno, tornati nella nebbia del nord Italia, qualcuno aveva comprato quella cassetta: due allenamenti a settimana in viaggio sul pulmino del minibasket, dal punto di ritrovo alla palestra costantemente con gli 883 di sottofondo, cantati da tutti, per la gioia dell’autista.
Quei testi avevano qualcosa di mai sentito in una canzone dai bambini: parole come «menate, incazzare, paranoia, sfigato, stronzi» erano roba che dicevano quelli più grandi col motorino parcheggiato davanti al bar di provincia: era esclusiva loro e non dei loro genitori. Era figo.
Nel 1993, Hanno ucciso l’Uomo Ragno avrà venduto 700.000 copie, portando numerosi singoli in top ten e l’album al primo posto in classifica in Italia.
Sidney Sibilia, nella serie Sky, cerca di raccontare tutto questo dal punto di vista dei giovani Max Pezzali e Mauro Repetto, edulcorando la storia e romanzandola, come già fatto con altre storie italiane nei lungometraggi L’incredibile storia dell’Isola delle Rose e Mixed by Erry, con una narrativa godibile anche a chi la storia degli 883 non la conosce o non l’ha vissuta in prima persona. Sono diverse le parabole che ti lasciano incollato alla serie: quella di Cisco, pluricitato nella discografia, quella di Lello, l’originale Uomo Ragno ispiratore inconsapevole del singolo che lancerà la carriera degli 883, quella della cassetta della prima registrazione per Silvia, il ruolo del produttore Pier Paolo Peroni, Claudio Cecchetto e i continui easter eggs con protagonisti musicisti e personaggi dell’epoca.
Quando si torna a parlare di cosa siano stati gli 883 come fenomeno di costume, sono due gli argomenti principali su cui ci si concentra: la mediocrità e la sorprendente trasversalità del loro successo. Ed è tutto vero: la produzione del primo disco è al limite dell’amatorialità anche considerando gli standard del 1992, ma è difficile trovare un millennial o qualcuno che sia nato o abbia vissuto attorno agli anni ’80 che non sappia, volente o nolente, a memoria il testo di almeno un paio di brani o non ne condivida il ricordo. Nella serie di Sibilia è stato probabilmente mitigato il lato dark del vivere davvero la provincia dell’epoca, ma evidenziando contenuti così trasversali da essere condivisi ancora oggi, in scala larghissima, da un pubblico che va da Zerocalcare fino al vicesegretario della Lega. Brani come Con un Deca o Cumuli sono testimonianze veraci, unite sì a una rosa di brani semplici e melodici da cantare dal barbiere, ma l’impressione – in questa prima stagione, ne è stata appena confermata una seconda – è che sia stato dato risalto a una versione più addolcita del disagio della provincia, in chiave pop da cameretta: l’operazione però riesce perché diventa una parafrasi del percorso degli 883, che esorcizzano quello stesso malessere nelle loro canzoni, cercando una via d’uscita e trovando la forza di esprimersi schiettamente in un disco coloratissimo.
L’enorme successo della serie è giustificato da una serie di intuizioni piacevoli: nei personaggi sfaccettati e a loro modo profondi, negli innumerevoli riferimenti alla civiltà di inizio anni ’90, nella resa della vita dei giovani dell’epoca: dall’esame di maturità all’Aquafan di Riccione, dal servizio civile al rapporto con i genitori.
Gli interpreti di Pezzali e Repetto si ritrovano in contesti più grandi di loro e reagiscono in modo credibile, focalizzando l’attenzione sul loro rapporto e sull’importanza reciproca nella strada di quello che sembra sempre essere un sogno irraggiungibile. In particolare, la figura di Repetto viene rivalutata e chiarificata anche a chi lo ha sempre considerato il ballerino degli 883, nonostante gli autori siano ben coscienti di non avere a che fare con dei mostri sacri della musica e trattino sempre il fenomeno del pop italiano con piacevoli gag e autoironia.
Hanno ucciso l’Uomo Ragno – La leggendaria storia degli 883 oltre a far leva sull’effetto nostalgia è una serie teen sull’amicizia, in cui è facile immedesimarsi in quegli adolescenti imbranati. Tutti vorremmo accanto a noi un Mauro Repetto a tenere vivi i nostri sogni. Riesce nell’intento di descrivere una storia di trent’anni fa agganciandosi alla sensibilità del presente: musica adorata dai ragazzini e incompresa dagli adulti, forse il campo base della fenomenologia dell’indie italico. Non tanto come liriche, ma come modo di approcciarsi alla realtà: diretto, incolto, a volte demagogico ma veritiero e sempre più fresco della fastidiosa retorica di «Un’ora e dieci minuti di Marco Masini» in macchina da Pavia a Milano.
Qual è il giudizio che possiamo dare al fenomeno 883, oltre trent’anni dopo?
Prima che MTV Europe, dagli studi di Londra, arrivasse a salvare una generazione dal dominio del cecchettismo nel mercato discografico italiano, palesando il boom del grunge, dell’elettronica e di tutte le sfaccettature di un mondo underground sempre più emergente, raccontandoci cosa accadeva al di fuori dalla macro-provincialità italiana: possiamo considerare gli 883 come i padrini di una forma di proto-indie italico, per lo meno come tipo di approccio?
Perché effettivamente, tralasciando qualunque giudizio sul valore artistico, partendo da un’idea – letteralmente da una tavernetta fornita di strumenti limitatissimi – hanno a modo loro descritto l’esistente con metodi, suoni e linguaggi allora distanti dal cantautorato tradizionale, spinti da una naturale esigenza di esprimersi.