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Seeyousound 2025: play loud, watch closer

Pochi giorni dopo la finale di Sanremo e l’annuncio di Lucio Corsi all’Eurovision, la musica torna a essere come da tradizione la star indiscussa del Seeyousound. Il Festival, che ha appena concluso la sua undicesima edizione, riconsacra Torino come luogo di incontro unico nel suo genere, tra cinema, musica e persone.


Primo festival cinematografico a tema musicale in Italia, il Seeyousound Festival è un appuntamento imperdibile per chi ama scoprire i retroscena del mondo musicale, dalle leggende del rock mainstream alle scene più underground, italiane e internazionali. Con 65 film e videoclip, 15 live, una mostra e una serie di eventi collaterali, il SYS ha reso nuovamente Torino un crocevia di suoni e immagini per otto giorni. Il festival si è articolato in diverse sezioni competitive, esplorando la musica su pellicola in ogni sua forma: Long Play Feature per i lungometraggi di finzione, Long Play Doc per il cinema del reale, 7Inch per i cortometraggi, Soundies per i videoclip e Frequencies per le sonorizzazioni dal vivo. A queste si sono aggiunte le rassegne fuori concorso Rising Sound, dedicata al potere identitario e trasformativo della musica, e Into the Groove, che ha inaugurato la rassegna con una serata sold out.

Ad aprire le danze al Cinema Massimo è stata infatti l’anteprima italiana di Blur: To The End di Toby L., accolta con entusiasmo dal pubblico e capace di rievocare la storia della band britpop con uno sguardo intimo e autentico. Nella serata pre-inaugurale, proprio Toby L. ci ha parlato del grande valore aggiunto di questo progetto: non una pellicola sceneggiata e diretta a tavolino per la reunion dei Blur dopo dieci anni di carriere separate, ma la testimonianza autentica della profonda amicizia che lega da oltre trent’anni Damon Albarn, Graham Coxon, Alex James e Dave Rowntree.

Un altro tutto esaurito è arrivato per uno dei documentari più attesi di questa edizione del Seeyousound: Uzeda: Do It Yourself di Maria Arena. Il film è incentrato sull’ultratrentennale storia del gruppo catanese, strettamente intrecciata al leggendario polistrumentista Steve Albini, che li ha consacrati come band di culto del noise-math rock.

Restando in Italia, quella di Booliron – Hip Hop In Riviera è la storia di «eroi inconsapevoli, forti in 4/4 coi forti empatici, coi deboli». Qui potrei fermarmi, perché Gli Indelebili – il brano di Dj Baro featuring Dj Double S, Word, Tormento, Danno, Piotta, ExtraPolo, Esa, Callaman e Master Freez – racchiude tutto il fermento di quel luglio del 1994, quando il Parco Marecchia di Rimini è diventato il palcoscenico della prima jam della storia dell’hip hop italiano. Negli anni ’80 e ’90, la Riviera Romagnola accoglieva giovanissimi artisti da ogni angolo d’Italia: Torino, Milano, Roma, Bologna, Napoli. Li univa una diffusa, incontenibile voglia di dire la loro, con le rime, il corpo, le bombolette spray e la musica. Il documentario, diretto da Francesco Figliola, cattura questo fenomeno spontaneo e creativo attraverso immagini d’archivio e interviste ai pionieri della scena, riportando alla luce gli eventi chiave che hanno segnato un’epoca. Tra questi, spicca Indelebile ’94, spesso definita la Woodstock dell’hip hop italiano. Alla proiezione è seguita un’esibizione live di Tormento con DJ Mastafive, che ha caricato il pubblico con i classici dei SottotonoLa Mia Coccinella, Mezze Verità, Tranquillo, Dimmi di Sbagliato che C’è e Amor De Mi Vida – per poi chiudere con La Mia Parola, il brano sanremese presentato con Shablo, Guè e Joshua.

Se Tormento ci è sfuggito per due chiacchiere finali, non ci potevamo lasciare scappare un’intervista a Guido Harari, il fotografo che sta alla musica come Doisneau sta al bacio alla francese. Le rivoluzioni di fine Novecento – dalla musica leggera degli anni Sessanta alla stagione del cantautorato, dal rock internazionale al pop e alla dance degli anni Ottanta, passando per il punk e le avanguardie della beat generation – sono il cuore del documentario Guido Harari: Sguardi Randagi del regista Daniele Cini.

A proposito di rivoluzioni musicali, Born to Be Wild è il documentario diretto da Oliver Schwehm sul ciclo di nascita, vita e morte degli Steppenwolf, la storica band rock canadese-statunitense divenuta celebre alla fine degli anni Sessanta. Il film ripercorre le origini del lead singer John Kay e del bassista Nick St. Nicholas, mettendo in luce il loro viaggio dalle macerie dell’Europa post-bellica fino al successo internazionale. Attraverso materiali d’archivio e interviste a personaggi come Alice Cooper e Cameron Crowe, il documentario è la testimonianza di come Born to Be Wild – inno assoluto degli easy rider – abbia simbolicamente posto fine alla visione hippie, aprendo la strada a una nuova fase culturale segnata da alienazione, conflitti sociali e un crescente senso di disillusione. Questa transizione emerge chiaramente nel contrasto tra le personalità di Kay e Nicholas: il primo, pragmatico e focalizzato sullo show business; il secondo, sognatore e distaccato dalla materialità. Allo stesso tempo, il passaggio è perfettamente catturato dall’associazione del brano al cult di Dennis Hopper, dove la musica ricopre il ruolo di terza protagonista al fianco di Peter Fonda e Jack Nicholson. È difficile immaginare Easy Rider senza Born to Be Wild, così come scindere la controcultura americana di quel periodo da quelle note calde come la Death Valley.

Se la storia degli Steppenwolf coincide con quella degli Stati Uniti, nello stesso periodo, quella dei Gaznevada corrisponde in Italia alla storia di Bologna. Con il documentario Going Underground, la regista Lisa Bosi ripercorre la carriera di questa band iconica, dagli esordi punk nel ‘77, passando alla new wave e poi all’italo disco negli edonistici anni 80. Il successo di questo documentario, che ha vinto nella categoria Long Play Doc, è stato festeggiato a uno screening party al Capodoglio Murazzi, con un djset curato dai Gaznevada in persona e la straordinaria partecipazione di Johnson Righeira, che ha cantato Vamos A La Playa nella versione della prima demo del pezzo.

A proposito di feste, quando avevo sedici anni e andavo a ballare reggae al vecchio Nuvolari di Cuneo (per sempre ricordato), sentire partire «Bam bam, ay, what a bam bam Bam bam dilla, bam bam» significava che le danze andavano a iniziare. Ma Bam Bam non è solo una canzone: è un’icona culturale che ha attraversato generazioni, club, festival, film e spot pubblicitari. Dietro questo brano leggendario c’è una storia fatta di resistenza, determinazione e lotta per il riconoscimento. Bam Bam – The Sister Nancy Story, diretto da Alison Duke, racconta il percorso di Sister Nancy, la prima donna a imporsi nella scena dancehall giamaicana, con una forza dirompente che l’ha resa iconica.
Il documentario intreccia materiali d’archivio, performance live e interviste a figure chiave della musica internazionale, tra cui Janelle Monáe, Pete Rock, Young Guru e DJ Kool Herc. Un viaggio che ripercorre non solo il successo planetario del brano – campionato da artisti come JAY-Z, Kanye West, Lauryn Hill, fino a essere ripreso nei live di Beyoncé – ma anche le ombre dietro le luci della ribalta: per oltre trent’anni, Sister Nancy non ha ricevuto alcun diritto d’autore per la sua canzone e ancora oggi non si sa che fine abbia fatto il master originale. Cresciuta nella Kingston dei sound system, Nancy ha imparato l’arte dell’MCing grazie a suo fratello Brigadier Jerry, uno dei dj più rispettati della scena giamaicana. Ha conquistato il suo spazio in un ambiente ostile, diventando una pioniera della dancehall con uno stile che non ha mai tradito. E mentre Bam Bam è diventato il brano reggae più campionato di sempre, Sister Nancy continua a cantarlo senza mai cedere alla tentazione di smettere.

Passando dai documentari alle opere di finzione, The Gesuidouz è la surreale commedia del regista cult Kenichi Ugana, che traccia la storia di una sgangherata band punk giapponese in cerca di ispirazione e successo. La protagonista, la ventiseienne Hanako, è la frontwoman: ossessionata dal cinema horror, dichiara che morirà a 27 anni come le grandi leggende del rock. Con il tempo che stringe e l’etichetta discografica pronta a scaricarli per le vendite a zero, la band decide di ritirarsi in campagna per comporre la canzone che potrebbe cambiare le loro sorti. Il film spicca per il suo umorismo stralunato e una narrazione che mescola, come in un The Muppet Show, realtà e fantasia. I membri della band, con il loro comportamento goffo e infantile, sembrano vivere in un limbo tra il sogno e la veglia. L’ambizione di diventare la band punk più famosa al mondo contrasta con la realtà: la loro musica è considerata scadente soprattutto dal loro agente.
La campagna non è solo uno sfondo, ma un elemento chiave che trasforma la percezione dei protagonisti. La loro immaginazione – alimentata da riferimenti ricorrenti al punk hardcore, al grunge, alla musica classica e al cinema splatter – si fonde con la vita rurale, creando una dimensione onirica in cui cani parlanti offrono consigli e ispirazione. Questa fusione raggiunge il suo culmine nel processo creativo di Hanako, che letteralmente inghiotte i pezzi di carta su cui scrive i testi per interiorizzarli e dar vita alle canzoni, vomitandole.

Il contatto con la natura e i viaggi onirici sono espedienti narrativi evidenti anche in Rock Bottom, l’unico film d’animazione nel cartellone SYS di quest’anno. L’opera di María Trénor è un viaggio da New Yok a Maiorca nella tumultuosa storia d’amore tra Bob e Alif, due giovani artisti travolti dalla creatività e dall’autodistruzione nella cultura hippie dei primi anni Settanta. Ispirato all’album omonimo di Robert Wyatt del 1974, la narrazione si muove come una puntina sul disco, esplorando le contraddizioni di un’epoca segnata da sperimentazione artistica e personale. Un’esperienza immersiva e introspettiva, fatta di visioni abissali caratterizzate da una psichedelia visiva che riflette sia le deviazioni che gli stimoli di quel periodo, e culmina con la canzone finale At Last I Am Free, che suggella il percorso di crescita tortuoso e profondo dei protagonisti.

È tutto per quest’anno dal Seeyousound. In otto giorni abbiamo attraversato epoche, generi e geografie, tra storie di ribellione, sperimentazione e resistenza. Se c’è un filo conduttore che lega le opere che vi abbiamo raccontato, è forse racchiuso nelle parole di Lucio Dalla: «Ma l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale». Perché dietro ogni rivoluzione musicale c’è sempre qualcuno che segue la propria strada, reinventandosi a ogni nota.

Jelena Bosnjakovic

Cresciuta a bagna càuda e rock 'n roll jugoslavo. Comunicatrice e viaggiatrice. Può essere la musica un metro di giudizio? Sì. Siamo ciò che ascoltiamo.

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