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L’ultima festa del cazzo: festeggiamenti romani con i Marlene Kuntz

Il primo weekend di ottobre è noise rock: sono i Marlene Kuntz che hanno preso il controllo del Monk a Roma per tre giorni consecutivi in onore dei festeggiamenti per il trentesimo anniversario dell’uscita di Catartica, primo album della band e pezzo fondamentale della scena alternative italiana


Sabato 5 ottobre Roma era bloccata dallo sciopero del trasporto per 24 ore. La paura di arrivare in ritardo perciò non era una sensazione, ma una certezza pura. Con o senza mezzi tagliati, la Capitale ti costringe sempre a una preparazione psicofisica piuttosto esemplare. È grazie a questa preparazione che arrivo al Monk sana e salva. La festa, qui, sembra già iniziata: ad accogliermi il grande faccione di Thelonious a cui è dedicato il nome del locale. Una location perfetta: puoi metterci una band come i Melvins, come puoi metterci un complesso jazz di dieci componenti e farli jammare tutta la notte, quello che ci metti è sempre azzeccato.

Sono le 21.00 ma il concerto ancora deve iniziare. La folla non è preoccupata: Roma è una città abituata alla lentezza, che si prende i tempi che si merita, senza fretta. L’emozione però è palpabile: l’idea di ritornare ragazzi ascoltando i Marlene Kuntz sotto palco crea nei signori e nelle signore qui presenti sorrisi smaglianti e aspettative molto alte. Una donna mi racconta che è venuta dalla Sicilia per questa serata, ed è sicura al cento per cento che non ne rimarrà delusa.

È una grande festa questa estensione del tour dei Marlene, che da marzo stanno girando l’Italia per celebrare i trent’anni dell’uscita del primo album, Catartica: un connubio di suoni e colori che segnò per sempre la scena alternativa italiana dei primi anni Novanta. La sala teatro del Monk rilascia un’energia sonora unica: qui è facile che le band sprigionino il loro potenziale, ma soprattutto che allarghino il loro abbraccio musicale ai fan, complice un palco piuttosto basso, che mette esecutori e ascoltatori sullo stesso piano.

I ragazzi si palesano in ritardo ma in una forma smagliante, con camicette eleganti e collane fini da fare invidia alle leggende anglo-americane. Niente introduzione, si parte subito con la musica: Trasudamerica, Gioia (che mi do) e Fuoco su di te, una dietro l’altra, squarciano il velo dell’attesa che fino a quel momento si era deposto sulle nostre teste. Sotto cassa tutto è distorto, le luci rosse spavalde e il fumo accompagnano la folla in questo ondeggiare ancora decisamente timido.

Le tracce di Catartica si susseguono senza lasciare spazio a interazioni con il pubblico né a strane congetture architettate per poter acchiappare l’attenzione della folla: semplicemente, non ce n’è bisogno. Perché i Marlene Kuntz parlano con la loro esecuzione musicale, pulita ma allo stesso tempo garage; parlano attraverso i loro testi urlati e profondi. Non c’è pogo, ma tutto intorno le persone cantano emozionate e con le lacrime agli occhi. Questa festa crea una voragine sul muro di pietra della sala, che sembra portare direttamente al 1994: l’esecuzione pulita lascia spazio a stonature grunge/noise rock con Mala mela e Festa mesta. L’emozione è tanta e sembra giocare anche con i protagonisti della serata. In particolare, Riccardo Tesio cade dolcemente sull’amplificatore a bordo palco, mascherando il tutto con un’eleganza indiscutibile.

L’Ultima festa del cazzo non è una semplice celebrazione di un album, ma un elogio a un preciso periodo storico e un profondo grazie a una fetta di generazione che i Marlene li ha seguiti e ammirati fin dal primo istante. Esemplare l’esordio romanesco di una signora accanto a me, che nell’attesa del brano successivo confessa: «vojo tornà a 15 anni fa». In quella frase ho modo di assaporare, attraverso i suoi occhi, un suono e un odore a me sconosciuti, una celeste nostalgia che sembra legarci tutti quanti dentro questa sala, grandi e piccini.
Nel bel mezzo di questo pensiero parte
Sonica, inondando di rosso fuoco e di calore la folla. No signora, non ce n’è bisogno: quei suoni sono ancora vivi e vegeti e i Marlene sono riusciti a rievocarli anche in chi quei suoni non li aveva mai sentiti.

Leggendo la scaletta vicino i pedali di Luca Saporiti, bassista della band, mi spoilero il bis finale. Lo dico, perché non è scontato che avvenga. Non è scontato che una band torni sul palco per darci la botta finale. E che botta: Ape regina e M.K., furiose e scatenate.

Un ultimo saluto – piuttosto malinconico – e la sala teatro, trasformata per quasi più di un’ora e mezza in una macchina del tempo, si svuota lentamente. I Marlene lasciano un ricordo indelebile, definendosi a mio avviso come una delle poche storiche band italiane ancora veramente forti. La signora dalla Sicilia tornerà sicuramente a casa con il sorriso stampato in faccia.

 

foto di Mariano Doronzo

Marika Tassone

25 anni (non proprio) di libri, film e musica metal. Scrivo tante cose e lavoro per il cinema.

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