Un’immersione sonora e sensoriale. Wall of Eyes sancisce definitivamente i ruoli all’interno dei The Smile e il progetto, finalmente, conquista la sua identità
Un tuffo, dolce, negli abissi della malinconia. Gli occhi sono chiusi, gli altri sensi amplificati: la massa liquida delle emozioni accoglie calma l’immersione, sfiora la pelle lungo la discesa.
I The Smile sono tornati. O, per meglio dire, sono finalmente nati. A circa un anno e mezzo da A Light for Attracting Attention – disco d’esordio, se così si può dire, della band capitanata da Jonny Greenwood (ebbene sì, non da Thom Yorke) –, con Wall of Eyes la band annienta ogni residuo di perplessità e si afferma come un progetto autentico e innovativo, svincolato dall’ombra lunga dei Radiohead. Infatti, se inizialmente il gruppo faticava ad affermare la propria identità, figlio e schiavo della sua eredità musicale, ora sembra aver quadrato i conti.
Ad eccezione della title track che ricorda molto House of Cards di In Rainbows, la sonorità dei Radiohead – pur presente per ovvie ragioni – non è più così invadente. Fondamentale, in questo, la mediazione di Tom Skinner, batterista nel progetto ma formatosi nei Sons of Kemet. La ritmica è dilatata, piena, colma di fusti; delicata ma perpetua, ossessiva: come un mantra, come un rito tribale. In contrasto con le alte frequenze della voce di Thom Yorke – comunque contenute rispetto al solito –, ne ammorbidisce il protagonismo, lo diluisce. La somministrazione, così, non diventa solo facile: è ambita.
I tre, trovano finalmente un equilibrio: Greenwood è in una forma splendida e domina il percorso sonoro dalla prima all’ultima traccia. Vigila sulla struttura, sulle distorsioni e sulle dissonanze, che diventano riff; ma anche sugli arrangiamenti, di chiara derivazione cinematografica: frutto della sua ormai più che decennale esperienza come compositore al fianco di registi del calibro di Paul Thomas Anderson, tra i più importanti nel panorama contemporaneo.
Un disco che non urla, eppure cattura l’attenzione, circondato dal suo “muro di occhi”. In effetti, è interessante notare come – da A Light for Attracting Attention a Wall of Eyes – nei titoli degli album le parole rimandino così tanto all’attenzione, all’osservazione e alla dimensione dello sguardo.
Perfettamente a metà disco, il crescendo di sintetizzatori al termine di Under Our Pillows sembra scandire un punto di sospensione e, nel suo improvviso cessare, l’occasione di un respiro, dopo questa lunga apnea emotiva. Friend of A Friend, infatti, ricomincia l’immersione dalla superficie: lentamente e senza fretta, avvolti da un involucro di archi e fiati. Poi, con I quit, torniamo definitivamente negli abissi: sonori ed emotivi, onirici e introspettivi.
Bendic Hectic – la traccia più lunga dell’album – è forse la più rappresentativa della straordinaria capacità interpretativa dei tre componenti dei The Smile. Ma, soprattutto, del loro ruolo all’interno del progetto: la chitarra di Greenwood “piange dolcemente” – come direbbe McCartney – e trasuda emotività; Skinner si offre al servizio degli arrangiamenti, delicati e dal chiaro retrogusto jazz; Thom, dal canto suo, rinuncia (quasi) del tutto al falsetto per valorizzare la profondità della sua voce, che sa trasportare in luoghi misteriosi, tanto ignoti quanto confortevoli, come pochi altri.
You know me! – come sembra suggerire il titolo – riporta a sonorità già conosciute attraverso i solchi dei dischi solisti firmati Thom Yorke. La batteria sembra uscire lontana da un nastro registrato: una tecnica già collaudata in Videotape. Fluttuando, il pianoforte ci accompagna verso l’uscita di questo viaggio.
Tuttavia, non si torna in superficie. Le emozioni che abbiamo raccolto lungo il percorso, così intense, non vanno più via: restiamo in apnea, nelle profondità introspettive.
Eppure, qui, c’è luce. E c’è ossigeno: torniamo a respirare.