Melodie pop appoggiate a sonorità alternative di inizio millennio, il tutto condito da arrangiamenti che restano fedeli all’onestà della sala prove. La Rappresentante di Lista torna con un album dalla teatralità articolata quanto condivisibile: uno scontro tra individuo e società, che percorre tutte le fasi di una battaglia necessaria alla sopravvivenza
Arrivederci al patinato glam pop del lavoro precedente My Mamma – sì, proprio quello che richiama alla memoria Sanremo, Ciao Ciao e i balletti su TikTok – e benvenuto al pop alternativo. La Rappresentante di Lista torna con un album dal titolo emblematico: Giorni Felici. Anche se, dopo l’ascolto, è inevitabile domandarsi quanto sia illusoria la felicità di cui stiamo parlando.
Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina mantengono viva la loro teatralità, sulla quale si fonda l’identità artistica dell’eclettico duo, virando verso un suono più fedele alla presa diretta in sala prove. Nei testi si rinnova la poetica distintiva de LRDL, capace di coniugare la profondità delle figure retoriche con un linguaggio diretto e privo di fronzoli, mentre le influenze musicali richiamano band iconiche come Blur e Oasis, rappresentative del passaggio al nuovo millennio. Il risultato è una fusione di melodie orecchiabili e un suono coeso predominato da chitarre distorte, spesso accompagnate da chitarre acustiche in stile Here Comes Your Man dei Pixies – di cui abbiamo recensito il loro ultimo album qui –.
Alle collaborazioni consolidate con Carmelo Drago e Roberto Calabrese si sono aggiunte nuove influenze grazie a una produzione itinerante, gestita in prima persona da Dario con il supporto di Simon Says. La gestazione è passata per New York con Kit Conway, ha incrociato Damon Albarn a Londra, per poi tornare nella familiare Sicilia con Erika Lucchesi – sorella di Veronica – e Donato di Trapani, già collaboratore di Colapesce e Dimartino. Quest’ultimo citato tra gli autori di Paradiso: il singolo che ha anticipato l’album, presentato sul palco del Primo Maggio insieme alla loro nuova veste sonora.
L’album si apre con La Città Addosso, in cui batteria e basso dominano la scena con l’appoggio di un tappeto di chitarre distorte e una melodia catchy. I cori e i clap tipici del pop dichiarano la volontà di partire leggeri, ma la frase «Mi sento la città addosso» è in grado di veicolare da subito il messaggio di oppressione che sarà il fil rouge di tutta la tracklist. Proseguendo, Je Ne T’Aime Pas Toujours ricorda una tipica chiacchiera al bar, dove i turni di parola sono scanditi dal passaggio di un joint condiviso. Le voci di Dario e Veronica dialogano armonicamente, supportate da un riff di synth anni ‘90 nel ritornello. L’assonanza del titolo ricorda la censuratissima Je t’aime… moi non plus, ma qui l’eroticità cede il passo a una resa dolce-amara: «L’amore mi fa male, non lo capisco più/E mi ritrovo sempre appesa, je ne t’aime pas toujours».
In Paradiso, i distorsori prendono il sopravvento, muovendosi su una tonalità più bassa che colora in maniera inedita la voce di Veronica. Una hit da un milione di ascolti, che è riuscita a creare giustificato interesse attorno al nuovo progetto. Con Giorni Felici, la batteria singhiozzante accompagna quella che sembra una poesia in bilico tra un malinconico ricordo – «Ho avuto molte vite e giorni felici/Troppe sfide, ho avuto male» – e una denuncia sociale – «Ci toglieranno tutti i ricordi/Vado all’inferno e poi scappo via» –. Sempre in rappresentanza di questa instabilità condivisa, il punto interrogativo nel titolo di Parole D?Amore fa presagire l’incertezza raccontata da una canzone romantica: ci si interroga sul perché, vivendo questo sentimento universale, ci si ritrovi inevitabilmente a legarlo col dolore – «Cantare soltanto parole d’amore/D’amore per sempre, per sempre sto male» –. Il ritornello in controtempo acuisce la sensazione di instabilità, ma è la voce di Dario a completare coerentemente il quadro: è indisciplinata ed espressiva, proprio come l’amore.
Ho Smesso Di Uscire è una canzone potentissima, con un testo estremamente onesto che funge da abbraccio virtuale per chiunque stia vivendo un periodo difficile: «La vita mi fa sentire vuota/È come se ci fosse solamente noia». Il groove tipico del rock alternativo sostiene l’umore e mette in relazione la disperazione tipica di uno stato depressivo – «Se fossi sola mi brucerei/Se fossi qui ti salverei» –, con la rabbiosa speranza della fase di recupero: «Avrei un bisogno urgente della vendetta/Quella rabbia lucida/E poi andiamo al mare». In netta contrapposizione, subito dopo, arriva Mondo: la ballata dell’album, che si rifà al pop rock americano che governava le classifiche degli anni ’90. Il ritornello è luminoso, al contrario del pezzo precedente, l’obiettivo è quello di ricordare che il mondo sarà anche triste e inquinato, ma l’esplorazione permette di trovare il proprio posto e raggiungere la serenità: «Vai, vai, ragazzo, vai, dimmi che ci sei/Torna quando vuoi». Il finale è un crescendo di vocalizzi, che infondono un mood positivo e mettono fine al momento più scuro del disco. In Karaoke, si torna indietro nel tempo con una sognante atmosfera vintage. Il testo sembra a primo impatto un inno alla musica, ma nasconde un concetto più torbido: nonostante il successo e la popolarità acquisita, la sindrome dell’impostore è l’intima protagonista di chi impiega la propria arte nell’industria discografica. «Sono in radio, nello stereo/Le mie parole al karaoke», sembra tutto molto bello, ma poi: «Il mondo corre feroce/Mi sento inutile/Mi viene da piangere».
Con Baby Baila si inaugura il momento elettronico del disco, già ampiamente sperimentato nell’album precedente. È un incontro di sonorità diverse che spaziano nel genere e nel tempo: l’arpeggio e i suoni dei synth ricordano L’Officina Della Camomilla, ma poi si incrociano il rock ‘n’ roll e il gospel, esplodendo infine in un ritornello perfetto per la dimensione live. Un ottimo brano per chiudere energicamente il concerto.
Subito dopo, si arriva al culmine con Countdown. Qui, siamo in piena dance music con la cassa dritta e un basso super groovy, nuovamente colorato di chitarre distorte che producono un interessantissimo effetto contemporaneo. Strizza l’occhio alla Alexia dei primi tempi – quella di Uh La La La – ed è un esperimento molto ben riuscito. A concludere l’album è la traccia più punk di tutte: Cattivo. La voce distorta di Dario canta un testo semplice e ripetitivo – «Sono un po’ più cattivo/Sono cattivo, un po’ più cattivo di te» –, che dichiara un certo menefreghismo in merito all’aggettivo affibbiato al protagonista della storia. Un altro pezzo che live procurerà non pochi lividi da pogo.
Il progetto La Rappresentante di Lista non è mai stato così a fuoco. Grazie all’eterogeneità delle tracce, l’ascolto è godibile e coinvolgente, al punto da suscitare il desiderio di riascoltarlo dall’inizio per apprezzarne le sfumature. Non è un caso che il disco si chiuda con una risata e un applauso collettivi, che offrono una nuova prospettiva su quanto ascoltato fino a quel momento. Ci troviamo nella loro sala prove, immersi in un viaggio emotivo e viscerale e questa è la vera essenza di Giorni Felici: è onesto, senza filtri, dinamico. Un autentico inno al cameratismo che rivaluta un motto sterile, evidenziando il potere che possediamo come individui nella lotta contro una società che tenta di dividere e mettere in competizione. L’unione fa la forza.