“Dopo Tempesta” di Eugenio Rodondi – e Luigi Orfeo alla regia – è un concerto teatrale, o uno spettacolo musicale, che porta in scena “Gelicidio”, l’ultimo disco del cantautore torinese. Un incontro tra due mondi artistici differenti ma perfettamente comunicanti, capace di ispirare, sorprendere ed emozionare
Sei musicisti rifugiati al fioco lume di una lanterna. Fuori tuona il temporale: si sente il vento lacerare l’aria, la pioggia infrangersi sulle finestre. Siamo al sicuro, con loro, nel silenzio di un teatro spoglio. La scenografia è minimale ma funzionale, necessaria: l’assenza di cose da fare ci costringe all’introspezione, l’introspezione ci conduce ai ricordi. E il ricordare, inevitabilmente, alle emozioni, nel loro ampio spettro.
Eugenio Rodondi presenta così Gelicidio – il suo quarto e ultimo lavoro discografico –, portando la musica a teatro, ma anche il teatro in musica. E il teatro, si sa, è prima di tutto letteratura. La narrazione in versi a rime incrociate; la tempesta come prologo e cornice, che riporta alla mente l’inizio dell’Eneide; il richiamo a Huracán, implacabile divinità della mitologia Maya, capace di generare tempeste e uragani: molti sono gli elementi che rimandano alla tradizione della narrativa epica.
Ma non solo. La presenza di una cornice che costringe i personaggi – tramutati in narratori – in un luogo circoscritto, inducendoli a ingannare il tempo coltivando l’arte del racconto – questa volta attraverso le canzoni –, ricorda molto l’architettura del Decameron. Del resto, la tempesta come topos letterario iniziale – o comunque cruciale, in quanto punto di snodo nella trama –, è una costante non solo tra le novelle del Boccaccio, ma in gran parte della letteratura medievale.
La sala è buia e il pubblico attende in silenzio, seduto sugli spalti d’un teatro di città. Una voce solenne ne raccoglie l’attenzione: mentre parla, Il buio amplifica l’ascolto, converge l’attenzione sulle sue parole. Ben presto ci si accorge, infatti, che – al pari della luce – l’oscurità ha un ruolo importante non solo nella scenografia, ma in tutta la sceneggiatura. Così, quando Eugenio accende la sua timida lanterna, abbiamo i primi riferimenti visivi: un uomo in impermeabile giallo disteso sul pavimento; cinque musicisti, sbiaditi, fuori dal raggio del suo riflettore; qualche tenda che ricopre maldestra l’intonaco grigio delle pareti intorno. L’ambientazione scarna, del resto, è perfettamente in accordo con l’incipit iniziale: possiamo chiamare questo teatro un rifugio.
Con la sua luce, Eugenio comanda lo sguardo dello spettatore, come un custode dei nostri futuri ricordi: decide cosa vediamo, nasconde ciò che ci è chiesto soltanto di immaginare. Ed è il ricordo, per l’appunto, il filo conduttore delle sue canzoni. Ma tra i ricordi il clima è teso: la tempesta fuori dal teatro, se trasposta su un piano allegorico, sembra metafora dei turbamenti – psicologici ed emotivi – che imperversano su tutti noi, ansiosi di distrarci per non affrontarli. Eppure, prima o poi, ci si trova costretti, dal buio e dalle circostanze, a fare i conti con le insicurezze. Con le fragilità, con le paure e coi rimorsi.
Ma ogni tempesta, per quanto impervia e duratura, ha il suo cessare nella luce, nel chiarore di un mattino soleggiato. Gli uccelli cinguettano dalla finestra, il sole è un canto di sirena. Certo, i ricordi stanno lì e il dolore non scompare, ma conoscerli – e conoscersi – è la chiave che ci serve: per uscire dal rifugio, dopo il temporale.