La musica degli Estra è una gemma ruvida, trasparente e rara, custodita con amore da chi ha vissuto intensamente la scena rock italiana degli anni ’90. Dopo l’epoca dei vent’anni, oggi ecco “Gli anni Venti”: questo il titolo del nuovo album, registrato a distanza di due decadi, in cui il leader Giulio Casale canta le contraddizioni del presente nero e minaccioso. Per l’occasione, la band trevigiana ritorna dal vivo in una serie di concerti: siamo andati a vederli nella serata torinese al Cap10100
Mentre voi eravate sul divano a guardare in tv la finale di X-Factor, qualcuno usciva di casa per andare a vedere musica dal vivo. Quando c’è qualcosa o qualcuno che ci spinge a passare la sera fuori, persino in una buia, fredda e umida sera di dicembre, allora vuol dire che la vita scorre, il sangue è caldo, il cuore batte, lotta e insiste. Non devi per forza avere vent’anni, ne puoi avere il doppio, com’è il caso di questa serata: una certa quota di affezionati senior della musica alternativa italiana ha potuto vedere il ritorno di una storia importante degli anni ’90: gli Estra.
Trevigiani, “Nordest cowboys” come si autodefiniscono nel loro terzo album, gli Estra sono stati tra le punte di diamante della scena rock che fioriva a fine millennio. I testi del cantante Giulio “Estremo” Casale miravano alto, all’esistenza, alla società, alla religione, alla filosofia, alle psicosi, al potere, riservando profonda tenerezza per gli alienati e lucida rabbia verso gli indifferenti. Le sonorità di Abe Salvadori, Eddy Bassan e Nicola “Accio” Ghedin erano la corona potente di chitarra basso e batteria, spingendo un suono asciutto e robusto, meno sperimentale rispetto agli stridori rumoristici dei contemporanei Afterhours o Marlene Kuntz o C.S.I., probabilmente più immediato nelle aperture melodiche.
Hanno fatto tre dischi straordinari, entrati nel cuore di un pubblico avventuroso, esigente e mai sazio, che sapeva scovare e diffondere musica viva e indomabile. A inizio duemila ne hanno fatto un quarto, trainato dalla cover in italiano di The Passenger di Iggy Pop, che suggeriva una possibilità di grande salto nella diffusione discografica, ma era realisticamente impossibile aspettarsi una versione dei quattro smussata nelle asperità e nei contenuti. Si sono congedati con un doppio disco live. In seguito Giulio Casale ha fatto alcuni album solisti e si è dato al teatro, esibendosi in monologhi sulla beat generation, riletture di Giorgio Gaber e spettacoli in collaborazione con Andrea Scanzi.
Qualche rara reunion dal vivo c’è stata, ma mai un vero e proprio ritorno insieme per l’incisione di un intero album. Stavolta sì: con un’operazione di crowdfunding che è andata oltre i traguardi prefissati, i quattro sono tornati in studio di registrazione per dare alla vita un nuovo album. Il titolo, Gli anni venti, è già un programma. Se l’ombra dei totalitarismi si sta allungando sul nostro mondo esattamente come accadeva nel ventennio mussoliniano, l’album descrive le contraddizioni degli «anni così ruggenti prima del grande crack» e il racconto del passato si trasforma in premonizioni sul futuro. Si tratta delle canzoni più cupe e pessimiste della loro carriera, con sonorità dure, immagini buie, presentimenti neri che si affacciano all’orizzonte. Un ascolto aspro, eppure illuminante e purificatore. È il modo della band, come il leader dice sul palco, di essere «poeticamente antifascisti».
Sullo schermo dietro il palco del locale – Cap 10100, Torino – c’è scritto semplicemente il titolo dell’album e le canzoni de Gli anni venti rappresentano la scaletta della prima parte del concerto. Insieme a loro, il tastierista Marco Olivotto. Giulio Casale, alto come un cestista (quale in effetti è stato) e sottile come un equilibrista (soprattutto quando danza su un piede solo al limite del palco), è sempre in movimento e catalizza l’attenzione sia quando suona la chitarra sia quando canta microfono in mano. La voce vola in alto come quella di Jeff Buckley, artista che ama, a cui è stato spesso paragonato e a al quale ha anche dedicato un libro. Che n’è degli umani? si chiede. «Gli anni venti contro la Costituzione, contro Sandro Pertini, contro Tina Anselmi, contro Marco Pannella…»: all’oscurità del presente contrappone simboli di libertà del passato.
La seconda parte è costituita da pezzi storici tra cui Non canto, Preghiera, Fiesta, Vieni: dal labiale del pubblico si constata che certi versi non si dimenticano. Dopo i saluti dei musicisti parte la musica di sottofondo, ma viene fortunatamente neutralizzata dal secondo ritorno sul palco; il concerto si conclude con L’uomo coi tagli. La cerchia intima ma appassionata che ama queste canzoni ha avuto occasione di celebrare il passato, certo, ma anche per definire il presente di artisti che, non più ventenni, hanno fatto canzoni che continuano ad arrivare al nocciolo delle cose, con urgenza di totale libertà espressiva. Come dice Notte poi, canzone conclusiva dell’album: «gli ultimi storti siamo noi, […] gli ultimi umani siamo noi». Gli ultimi estremi siamo noi?