L’artista australiano non tornava sui palchi milanesi dal 2018, poco prima di abbandonare il suo fortunato nickname in favore del suo nome d’anagrafe, Nick Murphy. Dopo aver riabbracciato il suo vecchio alias, torna a Milano per un dj set al Circolo Magnolia che ha infranto tutte le aspettative: nel bene e nel male
La puzza si avvertiva già dalla dicitura Dj set apposta dopo il nome dell’artista nell’indicazione dell’evento, ma Nick Murphy aka Chet Faker manca dai palchi milanesi dal 2018 e se passa dal Circolo Magnolia per mettere un po’ di musica – che comunque non è mica un dj qualunque, basta recuperare i set di The Lot Radio per capire cosa intendo –, dopo tutto questo tempo vale la pena fidarsi.
Che poi sappiamo com’è Nick, ancora più Chet, che se si mette in testa di sparire lo fa e bene; quindi meglio approfittarne anche se le possibilità che questo evento possa essere un contentino sono alte. Ad ogni modo Chet, cioè Nick, insomma, sembra essere di buona lena: dopo aver abbandonato il nome d’arte di Chet Faker, che gli aveva dato il successo mondiale a partire dal 2014, per abbracciare il suo nome d’anagrafe Nick Murphy, con il quale aveva pubblicato l’album Run Fast Sleep Naked nel 2019 – più, nel 2020, l’EP Cassette #4 e Music for silence, un lavoro elettronico deep listening –, ha deciso di riabbracciare il suo vecchio alias nel 2021 con Hotel Surrender. Progetto che, come ha dichiarato quell’anno in diverse interviste, in fase di scrittura e produzione aveva ricordato all’autore australiano le sonorità e le sensazioni legate al suo alter ego. Al netto dei sentimentalismi però, Hotel Surrender non aveva in realtà convinto più di tanto la critica musicale, nonostante la presenza di pezzi godibili come Something like this o It’s not you.
Ma tant’è, resta il fatto che cascare nella “trappola” del dj set, con la coscienza di ritrovare le proprie aspettative infrante, è stato un atto di fede nei confronti del suo talento poliedrico. Il set parte alle 23 con l’apertura dei Thanksmate, duo elettronico, che dopo un timido inizio a base di pop acida anni ’80, fa un buon servizio a Chet e riscalda la pista con pezzi più decisi e adrenalinici per ben due ore. Poi Chet, alla fine, appare.
Inciso: a ben pensarci la serata perfetta avrebbe potuto compiersi, perché alle 20.45, nello stesso luogo, si esibiva Yellow Days, artista britannico e autore di The Curse e Gap in the cloud, tra le altre. Ma l’organizzazione ha deciso di separare le serate. Non li biasimo. Anche se credo che saremmo stati tutti felici di fare doppietta con un costo del biglietto più alto.
A fronte di una comunicazione online un po’ confusa sui due eventi mi sono ritrovato con altri rimbalzati a parlare delle nostre aspettative relative al set. Raccogliendo le loro sensazioni era chiaro che il desiderio di tutti era cantare I’m into you, No diggity o che so io Gold, e poco sarebbe importato sentirle eseguite da una band o da Chet dietro la console. Le ipotesi peggiori? Ovviamente le mie, che, per dovere di cronaca, erano le seguenti: lo avremmo ascoltato per appena mezz’ora e non avremmo goduto di nessun suo pezzo. Ero fermamente convinto che dietro l’operazione commerciale ci fosse il vuoto.
Invece per ben due ore Chet, cappellino, longsleeve e fare esageratamente molleggiante, ci ha condotti in questo viaggio aperto dal suo brano Talk is cheap. L’artista ha dimostrato in console che il talento musicale non è solo espressione esecutiva e conoscenza strumentale, ma anche ricerca, selezione e ascolto. Per questo motivo è sembrato molto naturale passare nello stesso set da alcuni suoi pezzi, Something like this e Birthday Card, a chicche come Praia di Nathalie Duchene, Late Night Snack di Fouk, e poi Listen di Chopstick&Johnjon, fino a un’arricchita Oyo como va di Tito Puente. Il set è durato più del previsto e la qualità dei pezzi scelti da Chet ci ha fatto dimenticare degli imprevisti, del maltempo e delle nostre aspettative forse irrealistiche – a fine pezzo possiamo dircelo, in cuor nostro speravamo nella sorpresa e in qualcosa di simile alla Boiler Room di Melbourne del 2014 –. Bisogna ammettere che anche se per risentirlo live ci sarà ancora bisogno di tempo, è stato comunque bello salutarsi (e sbagliarsi).