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Agli I Hate My Village non importa del tempo, solo del ritmo

Niente più “superband” per gli I Hate My Village che, con il loro secondo disco distribuito da Locomotiv Records, riconfermano un’amalgama identitaria da pelle d’oca. Il loro successo rappresenta il numero – spesso sottostimato – di amanti della complessità musicale, con uno spiccato senso godurioso


Con il loro secondo disco Nevermind The Tempo, il primo realmente ideato e lavorato in coesione come una vera band – la retorica della “superband” non si addice a un progetto lontano dalle dinamiche di mercato –, gli I Hate My Village riaprono il dibattito in merito a un approccio old school alla musica. L’eccellente risultato scaturito dalla registrazione su nastro di questi nuovi dieci brani, dimostra che il talento e l’ispirazione sono gli unici fattori incidenti per la buona riuscita di un prodotto. La natura di questo lavoro la raccontano perfettamente nella descrizione che ne ha accompagnato la pubblicazione: «Nevermind The Tempo è imprevedibile e indeterminabile, scivola tra le dita di un mondo rigido e incasellato per arrivare dritto all’anima, nella libertà creativa più totale e sfrenata». Un mettere in luce quanto sia inutile focalizzarsi sulla rigidità del tempo, quando ci si può abbandonare all’istintività del ritmo.

Hanno preso ispirazione direttamente dai progetti main di ogni componente del gruppo: Afterhours, Bud Spencer Blues Explosion, Verdena, Jennifer Gentle risuonano in un impasto incredibilmente godibile. “Incredibilmente” non per mancanza di fiducia, ma perché la complessità derivata dall’altissimo livello musicale dei musicisti è messa a completa disposizione di un ascolto trascinante e fluido. Per chi ama la musica articolata, ma non per questo meno goduriosa.

Rispetto all’omonimo album di esordio del 2019, nato inizialmente come progetto strumentale, in questo lavoro le tracce seguono la struttura della forma canzone. Lo studio minuzioso dietro la composizione dell’arrangiamento è ripagato da un naturale effetto coinvolgente. La voce di Alberto Ferrari – supportata da quella di Adriano Viterbini che, in pezzi eccentrici come Mauritania Twist, viene processata sino a diventare uno strumento al pari della sua chitarra – si lascia andare a melodie virtuose, regalandoci dei ritornelli catchy. Diciamolo, quanto è soddisfacente ascoltarlo cantare su liriche anglofone, senza perdere un briciolo del graffio tipico del suo stile?

Un punto focale del progetto è quello di valorizzare l’errore, tramite distorsioni e storture ritmiche. Le prime, a disposizione di una delle chitarre più virtuose d’Italia: Viterbini viaggia su un groove tutto suo, regalando ogni volta riff e arpeggi tanto dissonanti quanto efficaci, di cui Erbaccia ne è una dimostrazione a tratti ipnotica. Le seconde, elegantemente espresse dal duo Fabio Rondanini e Marco Fasolo – in doppia veste di bassista e produttore – in sonorità percussive, che raggiungono l’apice di sclerosi nella strumentale Dun Dun.

Artiminime è la prima traccia, convulsa e metallica, ed è una dichiarazione d’intenti molto chiara in merito a ciò che il gruppo ha in serbo per la mezz’ora successiva. Water Tanks, il singolo apripista, rappresenta il ponte tra i due lavori discografici pubblicati. Il punto d’incontro in cui i freschi ritmi afro-beat si mischiano perfettamente con la versione alternative rock, proposta in seguito con Italiapaura, Eno degrado e Come una poliziotta. Non mancano canzoni più pop come Jim – che quest’estate ci permetterà di canticchiare frustrati «Just wanna sleep when it’s time to get up/don’t wanna think I just wanna get out» – e il potente ending, appoggiato su un evocativo pianoforte, Broken Mic.

Concluso l’ascolto di Nevermind The Tempo viene da domandarsi come mai la musica mainstream non cavalchi il successo – potenzialmente internazionale – che progetti di questo tipo sono in grado di raggiungere. Puntando su una larga fetta di pubblico, spesso sottostimata, che brama innovazione. Tra l’orgoglio di essere concittadini di cotanta onestà artistica e il cordoglio di sapere che questa sia l’eccezione, ci si prepara al live di questa sera al festival Jazz Is Dead di Torino.

Mattia Macrì

Creativo. Cantautore. Storyteller. Neurodivergente. Scrivere fa parte di me sin dall’infanzia, in forma di prosa o in forma di canzone. Credo fortemente nella definizione di un grande conoscitore della mente: “Le parole erano originariamente incantesimi, e la parola ha conservato ancora oggi molto del suo antico potere magico” (S. Freud). Amo la grafica, il video-editing, la fotografia e qualsiasi tipologia di performance artistica. Il motivo per il quale scelsi di studiare Chimica Industriale spesso ancora mi sfugge.

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