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Bassa fedeltà, musica low-fi e fuga dal capitalismo: l’ultimo libro di Enrico Monacelli

Distruggere la macchina capitalista e i suoi ingranaggi, rompere gli schemi, mettere in discussione il complesso dell’industria musicale per riprendere il controllo della propria musica. Molti artisti, più o meno consapevolmente, lo hanno fatto. «C’è una grande liberazione in una cosa registrata di merda.». Questo «atto di sabotaggio provocatorio» va riconosciuto, anzi – come scrive Monacelli – «dovrebbe essere celebrato»


Se qualcuno chiedesse che cos’è il low-fi, credo che tutti, in modo più o meno preciso, cercheremmo di avvicinarci al tentativo di definizione che Enrico Monacelli offre al lettore già nelle prime pagine del suo libro: «un termine ombrello senza forma, abbreviazione di low-fidelity, bassa fedeltà, che dà il nome a tutta la musica realizzata, più o meno intenzionalmente, per suonare povera, grezza, quando non propriamente male. O, in altre parole, tutto ciò che non è hi-fi».

Prima di leggere questo libro, una risposta del genere mi sarebbe sembrata più che sufficiente per zittire ogni critico musicale improvvisato che si crede il nuovo Piero Scaruffi sceso in terra. Non avevo compreso l’immensità della produzione DIY – do it yourself–, non ne avevo intuito l’affascinante complessità.

Pagina dopo pagina, mi è successo ciò che all’autore è capitato a diciassette anni, dopo aver ascoltato Teenage Spaceship di Smog. Ho iniziato a fare ricerche, a interessarmi, come dice Monacelli: «mi sono ritrovato in qualche modo ossessionato dal low-fi».

Se pensate che la musica low-fi sia ingenua, povera, marginale è il caso di leggere questo libro, che non è un saggio di musica, un manuale, un diario privato o un trattato filosofico – non dimentichiamo che Monacelli è un filosofo e qualche riferimento a noti pensatori e correnti di pensiero non mancano, ma sempre in modo puntuale ed efficace –. Il libro è un insieme, ben riuscito, di tutti questi generi letterari. Dunque, non abbiate timore di trovarlo difficile da comprendere, l’autore ha saputo accompagnare il lettore all’interno di ciascuno degli argomenti trattati; con una prosa scorrevole e chiara ha indagato anche i concetti più sottili e apparentemente impenetrabili della musica fai da te.

La stesura di questo libro nasce da un impulso che si trasforma in necessità e poi in proposito. Spinto dall’amore adolescenziale per questo genere, Monacelli arriva a constatare che non si trovi una teoria approfondita della musica low-fi, forse perché scrivere di un genere così fluido e multiforme non è un’impresa facile? Per anni questo libro rimane solo un’ipotesi. Poi, l’illuminazione: le radio libere nominate in un’intervista da Félix Guattari. Un esempio su tutte, Radio Alice, nata nel 1976 a Bologna. La radio libera denunciava una stanchezza nei confronti dei media ufficiali e una volontà di ricreare e ricrearsi al di fuori dei vincoli imposti dallo Stato e dal Capitale. L’intuizione dell’autore: Radio Alice non era altro che una forma embrionale di pratica sonora low-fi; in altre parole, un vero e proprio tentativo di fuga dalle imposizioni esterne.

Rompere i fili e saldarli nuovamente, dirottare le onde radio e quindi violare la macchina è un gesto estremamente politico. Come le radio libere, così anche le varie caratteristiche e forme della musica low-fi possono essere viste come «tentativi di fuga, a volte catastrofici e altre vittoriosi, ed esercizi per fare arte in modo concreto e diverso». L’intuizione di Monacelli è diventata un mantra per me: il low-fi è un’azione, non un genere.

L’autore ha dato vita a una «genealogia della musica low-fi», senza la pretesa che questo testo diventasse un canone. La scelta degli artisti trattati è tanto curiosa quanto originale e inattaccabile. Dai Beach Boys alla DSBM trap, passando in rassegna artisti cardine della musica DIY – come Daniel JohnstonAriel Pink –, ma anche cantautori che io, ingenuamente, non avrei pensato di trovare in questo libro, come ad esempio Perfume Genius.

In quasi tutti i capitoli viene scomodato un filosofo, per poi arrivare a parlare degli artisti solo dopo un preambolo che si rivela strettamente necessario. Si delineano connessioni solide e dialoghi interessanti, come quello tra Brian WilsonFélix Guattari, Perfume Genius e Mark Fisher, il black metal e Paolo Virno.

Ma quali artisti inserire in questo libro e perché? Monacelli stesso ci informa che non c’è un unico criterio in gioco. Alcune scelte erano inevitabili, altre semplicemente dettate dal gusto personale, ma il risultato è un prodotto affascinante proprio perché inaspettato. Viene da chiedersi: cosa tiene uniti questi cantautori così distanti tra loro sia cronologicamente che stilisticamente? La risposta è nel primo capitolo: «a prescindere da quanto siano stati o siano diventati famosi, hanno tutti conservato, più o meno, il gusto per il Fuori. Sono tutti nerd, freak, queer incapaci di assimilarsi alla normalità capitalistica».

Che cos’è quel Fuori nel quale tutti questi personaggi si incontrano? Sono i «margini esterni del nostro mondo capitalista» e Monacelli ammira tutti gli artisti di cui parla proprio per la loro capacità di abitare quei margini.

Il consiglio è quello di leggere ogni capitolo tenendo le cuffie alle orecchie – come si fa con le audioguide dentro a un museo – e andare ad ascoltare i brani degli artisti di cui l’autore parla: tutto sarà incredibilmente più chiaro e decisamente piacevole. Per me è stato un viaggio musicale denso di significato. Non guardo più con gli stessi occhi alcuni cantautori, ma con una consapevolezza rinnovata e più salda, altri invece sono felice di averli inseriti in playlist perché sino ad ora mi erano sconosciuti – confesso, non sapevo chi fosse R. Stievie Moore, ma ora riconosco la sua importanza per la musica DIY –.

Questo libro si serve della musica low-fi come pretesto per parlarci di noi, della nostra capacità – o incapacità – di riconoscerci inseriti in una grande società del potere che stabilisce cosa è normale e cosa non lo è. Avete mai pensato che il successo di un artista, la sua vita brillante, il denaro, la fama, siano obiettivi ingannevoli? Traguardi che comunemente riassumiamo con un «questo ce l’ha fatta», perdendo di vista il fatto che fare musica debba essere prima di ogni altra cosa un libero atto espressivo e non una merce?

Da oggi il low-fi per me non sarà più solo una produzione musicale volutamente scarna e disadorna e proprio per questo attraente, ma sarà una forma d’arte critica, un tentativo di fuga dagli schemi, un sabotaggio del sistema di potere, «una via per guarire dalla compulsione a fare musica, e arte più in generale, in un certo modo capitalista».

Ringrazio Enrico Monacelli per avermi aperto occhi e mente con questo libro.

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