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Viaggio nel cuore del Seattle Sound: dal grunge al queercore come mezzo per la libertà di espressione

Nel dicembre 1992, la rivista musicale SPIN pubblicava una retrospettiva sui Nirvana affermando che «Seattle sta al rock ‘n roll come Betlemme sta al Cristianesimo». Un’equazione più che calzante per le tantissime persone che, come in un pellegrinaggio, vengono in questa città non solo per respirare l’aria dell’Oceano Pacifico. Dal fenomeno grunge al fermento del queercore, penetreremo il cuore pulsante della Emerald City, dove la musica rimane un potente mezzo di espressione identitaria. Tra una visita al MoPOP, una tappa da KEXP e un salto a Easy Street Records, scopriamo come questi luoghi continuano a dare linfa vitale alla scena contemporanea


La musica qui ha radici profonde, un seme piantato negli anni Venti del secolo scorso. All’epoca Seattle era l’ultima tappa della corsa all’oro nello Yukon, oltre che uno dei maggiori centri per il commercio del legno. Entrambi fattori che contribuirono allo sviluppo della città e, va da sé, della sua vita notturna.
Da quel momento in poi, Seattle è stata la casa di alcuni dei più influenti artisti di tutti i tempi. Basti dire che, sul finire degli anni Quaranta, Ray Charles e Quincy Jones, entrambi trasfertisti, hanno mosso i loro primi passi nei jazz club locali. Vent’anni dopo, Jimi Hendrix, nativo di Seattle, ha rivoluzionato il modo in cui si suona e si ascolta la chitarra elettrica. Altri due decenni più tardi, un gruppo di disadattati alla ribalta ha preso la santa trinità chitarra-basso-batteria e ne ha fatto la massima espressione sonora del movimento grunge, il culmine della Seattle Sound Experience.

Chi oggi arriva in città e vuole immergersi nella sua cultura musicale, troverà una comunità più vivace che mai, che ai grandi eventi da stadio preferisce i live nelle radio e nei negozi di dischi; una comunità in cui trova spazio la voce di chi, altrove, verrebbe silenziato per quello che è.

Avendo parte della mia famiglia residente a Washington, ho approfittato della mia ultima visita per andare a conoscere meglio alcuni dei luoghi iconici, che si dipanano in tutto lo stato. Mio nonno, che era un ottimo pescatore e giocatore di scacchi, riposa al Greenwood Memorial Park di Renton di fianco a Hendrix. La casa d’infanzia di Kurt Cobain, il parco in sua memoria e lo Young Street Bridge citato in Something In The Way si trovano invece ad Aberdeen.

Ma, per questa volta, restiamo a Seattle, dove il passato rimane preservato nelle sale del MoPOPaka Museum of Pop Culture – mentre il presente fa il suo corso sulle onde sonore della stazione radio KEXP e tra gli scaffali di Easy Street Record.

MoPOP

Un avvertimento prima di iniziare: la visita in questo museo può scatenare un eccesso di entusiasmo quanto un pogo a un concerto dei Dubioza Kolektiv.

Il Museo della Pop Culture di Seattle è una tappa obbligata specialmente per i più nerd, e proprio da un nerd è stato avviato. Paul Allen, già co-fondatore di Microsoft, lo aveva concepito come omaggio alla musica rock e a Jimi Hendrix in particolare; infatti, originariamente il nome era Experience Music Project. Col tempo, il museo ha ampliato i suoi orizzonti per abbracciare altri aspetti della cultura pop trasformandosi, nel 2016, nell’attuale MoPOP.

L’edificio, progettato dall’architetto Frank Gehry, si fa notare per le sue forme ondulate e frammentate, che richiamano il celebre momento in cui Hendrix sfasciò la sua Stratocaster durante il concerto al Festival di Monterey. L’esterno è rivestito da pannelli metallici verniciati, che creano un effetto cangiante a seconda della luce del giorno. Il blu rappresenta le chitarre Fender, l’oro le Gibson Les Paul e il rosso richiama i vecchi camioncini dei rocker.
Arrivando con la monorotaia che collega downtown con il Seattle center, ci passiamo proprio in mezzo.

Fatto il biglietto, la prima esposizione che incontriamo è Voice Box, uno spazio creato dal Youth Advisory Board del MoPOP, pensato per far conoscere ai visitatori la comunità creativa giovanile di Seattle. L’esposizione mette in risalto il lavoro di artiste e artisti LGBTQIA+ e BIPOC, che lottano per trovare spazi in cui esporre le loro opere, e include una panoramica sulle organizzazioni che supportano la scena locale. Tra queste: TeenTix, Old Firehouse Teen Center, Seattle JazzED, Fremont Abbey Arts, The Vera Project, Smash, Totem Star, KEXP 90.TEEN e Rain City Rock Camp. Consiglio di darci uno sguardo perché sono molto interessanti.

Proseguendo nel percorso, entriamo nel Sound + Vision Theater, che può arrivare a contenere fino a 190 spettatori. Oggi, complice il martedì, siamo decisamente meno. Sullo schermo, proiettato in bianco e nero, c’è un live di Hendrix. Una performance che mi colpisce per la sua essenzialità: sul palco ci sono solo lui e la sua chitarra e tanto basta a creare un’atmosfera ipnotica e travolgente. Solo in quella sala si potrebbe rimanere un’ora intera, ma la giornata è lunga e mi convinco a rimettermi in marcia.

Concluso il tour del piano terra, è giunto il momento di salire: sul muro che si estende lungo la scalinata compaiono una gigantografia di Kurt Cobain intento a fare surf sulla folla al Commodore Ballroom di Vancouver (correva l’anno 1991) e una citazione del suo compagno di band Krist Novoselic che recita «Music is an art form that thrives on reinvention». Che dire: welcome to the jungle.

Nella prima galleria, Massive: the power of pop culture, l’atmosfera è in bilico tra lo stile k-pop e il “tutto per forza instagrammabile”, con il pavimento a scacchiera e una palette di rosa, blu e rosso accesi a fare da cornice. Si può iniziare ad avvertire la prima botta da sovraesposizione a input visivi. Conservati nelle teche ci sono soprattutto costumi di scena, tra cui un body indossato da Rihanna nel video di Rude Boy; la giacca indossata da Michael Jackson al Motown 25: Yesterday, Today, Forever; un completo disegnato da Vivienne Westwood; capi indossati da Prince durante il Purple Rain Tour e una chitarra elettrica; un abito bianco usato da Beyoncé in Upgrade U e, dulcis in fundo, abito e scarpe appartenuti a Biggie Smalls, aka Notorius B.I.G..

Proseguendo la visita entriamo dritti nella Guitar Gallery, che include una ventina di chitarre appartenute a diverse leggende della musica, come la Epiphone Casino del 1965 di Howlin’ Wolf, la Fender Stratocaster del 1965 di Nancy Wilson e la G&L Rampage del 1984 di Jerry Cantrell. Dietro ogni chitarra, esposta c’è una storia, legata a una specifica performance o alla registrazione di album iconici.

E le chitarre che non entrano nella galleria? Vanno a finire nella hall, in una pila che raggiunge il soffitto. Scherzi a parte, questa scultura esiste veramente ed è chiamata If VI Was IX: Roots and Branches: una torre composta da oltre 500 strumenti musicali, di cui 40 suonabili grazie a un sistema informatico che ne gestisce la riproduzione del suono attraverso un sistema di algoritmi. Creata dall’artista Trimpin, anche quest’opera è un omaggio a Hendrix e rappresenta il profondo impatto che ha avuto la chitarra nella musica popolare.

A proposito di Hendrix, la galleria che segue è dedicata proprio a lui. L’esposizione permanente Hendrix: Wild Blue Angel non stupisce solo per la quantità di cimeli e fotografie che ripercorrono la vita e la carriera del musicista, ma anche per l’esplosione di colori arancio, giallo e viola che invade le pareti. Un’atmosfera che richiama le copertine di Are You Experienced? dello stesso Hendrix e Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles.

La mostra Nirvana: Taking Punk to the Masses ha tutta un’altra atmosfera: qui sono le tonalità scure a dominare. Mi trovo in una grande stanza circolare, alle estremità viene ripercorsa la storia della band fin dagli esordi. C’è una t-shirt con la svastica barrata, ci sono poster dei concerti scritti a mano con il pennarello, cassette con le registrazioni demo, altre maglie, tante foto. Al centro alcune chitarre, una batteria. Il contrasto con le altre sale rende evidente il carattere fluido e in costante evoluzione della cultura pop.

Tralascio in questa sede il racconto sulle esposizioni dedicate alla fantascienza, al fantasy e ai videogiochi, ma se mai doveste capitare da queste parti vale la pena fare un giro a visitarle.

Esco dal museo, dopo non so quanto tempo. Mi sono dimenticata di fare un salto al Sound Lab all’ultimo piano, un’esperienza interattiva che ti permette di sperimentare in prima persona il processo di produzione musicale. Pazienza. Sono un po’ stordita dalla mole di oggetti che ho visto, da questi artefatti impregnati di un’energia che, se non è magia, ci si avvicina di molto. Ho bisogno di un tazzone di caffè americano per digerire questo eccesso di stimoli. Ci vuole un pausa di riflessione: andiamo da KEXP.

KEXP

Dal museo, KEXP dista appena una decina di minuti a piedi. L’edificio, un vasto open space post-industriale, trasmette immediatamente un senso di comunità: ci sono diversi tavolini, poltrone, divani, stazioni per ricaricare portatili e telefonini, una caffetteria, un palco e un negozio di dischi. Non è necessario essere dei nerd della musica per apprezzare l’atmosfera del luogo.

Fondata nel 1972 da un gruppo di studenti dell’Università di Washington, questa radio indipendente ha svolto – e svolge tuttora – un ruolo centrale nel far conoscere la musica indie alternativa alla comunità del Pacific Northwest e oltre.

Dopo aver ricaricato le batterie con un muffin al cioccolato, mi dirigo al welcome desk per informarmi  sul posto. Nel giro di alcuni minuti, vengo presentata a un giornalista che in quel momento si trova a pochi metri da me.

Rob Moura suona la chitarra e scrive di musica per diverse testate, tra cui The Stranger, Earshot Jazz e Arcade. Nel 2022 ha co-fondato WASH MUSIC, un magazine che si occupa di recensioni e approfondimenti musicali, realizzato grazie al contributo di diversi volontari. Suona familiare? 🙂

Rob si è trasferito dal Massachusetts nel 2015 per fare il musicista. Sub Pop, l’etichetta che ha reso il grunge famoso, si era ormai orientata verso l’indie rock, mettendo sotto contratto band come Beach House, Fleet Foxes e The Shins. Arrivando a Seattle, Rob si aspettava di trovare un mix di grunge e queste nuove influenze. In quanto esponente della scena musicale locale, spesso ha avuto modo di riflettere sulle capacità che ha il passato di influenzare il presente. E il grunge, da questo punto di vista, può diventare un fantasma scomodo, con cui ci si ritrova a dover fare i conti e, talvolta, a competere.

Durante la nostra conversazione, mi racconta di come si è evoluta la scena dopo l’apice degli anni Novanta. L’impatto di internet e delle piattaforme di streaming ha frammentato la cultura musicale in tante micro-subculture. Oggi, è possibile per alcune persone diventare famose all’interno di una nicchia specifica senza che altri ne siano minimamente consapevoli, un cambiamento netto rispetto all’epoca della monocoltura musicale, di cui Seattle è stata una delle ultime grandi manifestazioni con il movimento grunge.

Questa unicità era, in parte, dovuta anche alla giovane età della città. Fondata solo all’inizio del Novecento, Seattle si trovò, ancora in fase di sviluppo, a essere conosciuta e definita attraverso il grunge. Artisti come Kurt Cobain e Chris Cornell sono diventati i simboli non solo di un genere musicale, ma dell’intera identità culturale. Questo retaggio è ancora palpabile oggi. Camminando per le strade o visitando stazioni radio come KEXP è impossibile non imbattersi nelle tracce impresse da quella scena musicale (qui, Rob accenna con lo sguardo al ritratto di Kurt appeso all’ingresso alle mie spalle). I musicisti emergenti di Seattle, anche se impegnati in generi diversi, non possono ignorare l’eredità lasciata dal grunge e da coloro che ne furono i protagonisti.

Negli anni ’80, Seattle fu anche teatro di una normativa chiamata Teen Dance Ordinance, che rendeva quasi impossibile organizzare concerti aperti a tutte le età. Questa legge rallentò enormemente lo sviluppo della scena musicale emergente. Ciononostante, Seattle è riuscita a diventare un epicentro musicale globale, con band come i Soundgarden e i Pearl Jam. Curiosamente, però, la musica di quel periodo era più un prodotto del clima sociale che della creatività musicale pura: gran parte della scena ruotava intorno ai bar, dove l’alcol e le droghe avevano un ruolo dominante. La musica accompagnava queste attività, più che essere il fulcro della scena.

Nel frattempo, la scena punk si muoveva ai margini, esclusa dai locali di Seattle per via delle restrizioni, trovando rifugio nelle periferie come Shoreline e Tacoma. Questo ha creato due mondi separati: da un lato il rock mainstream e dall’altro il punk, che ha preferito rimanere nell’ombra piuttosto che essere associato a una scena troppo commerciale.

Attualmente negli Stati Uniti non esiste un finanziamento pubblico consistente per le arti. Di fatto, si crede che l’industria musicale possa prosperare senza aiuti governativi. Questo significa che la musica, specialmente nelle grandi città, è lasciata a se stessa. Ne consegue che i locali faticano a coprire gli alti costi degli affitti e, anche per via di una diminuzione delle vendite di alcolici, molti di essi sono costretti a chiudere.

Esistono ancora luoghi storici come il Neumos o il Central Saloon, che hanno ospitato alcune delle prime band grunge, ma la realtà è che sempre più locali chiudono le porte. In risposta, si stanno moltiplicando le house venues, cioè concerti organizzati in case private. Questa scena DIY, che richiama la mentalità punk, si è sviluppata in case come Animal House e Evil House, persino sotto i ponti di South Seattle, dove si tengono eventi che stanno mantenendo viva la scena musicale locale.

Seattle è inoltre una delle poche città negli Stati Uniti dove la comunità queer e non binaria trova davvero un proprio spazio per esprimersi.

La band del momento è Black Ends, trio guidato da Nicolle Swims – musicista black, queer e no-binary – che sta portando una ventata di freschezza nella scena. Ammettono senza remore di essere influenzatə dalla vecchia scuola del grunge, annoverando i Nirvana e l’album Bleach tra i loro ascolti preferiti. Il loro sound è una fusione di blues e grunge, che definiscono “gunk pop”, ed è caratterizzato da una chitarra potente e da una voce allo stesso tempo ruvida e melodica. Attesissimo l’LP in uscita a ottobre, ma nel frattempo vale la pena ascoltare l’EP Stay Evil.

Un altro trio che mi viene segnalato è Zookraught, band dance punk composta da due donne e una persona non binaria, che ha appena rilasciato Vida Violet. Le loro performance dal vivo sono elettrizzanti e continuano a conquistare fan ad ogni show.

Infine, i Beautiful Freaks sono tornati da un tour nazionale e il loro album, We Talk to Birds, è già un successo.

L’estetica e l’energia esplosive di queste band non si limitano solo alla musica, ma sono una forma di espressione identitaria. Seattle non solo accetta, ma celebra la comunità queer, rendendo la scena musicale una delle più interessanti al mondo.

Easy Street Records

L’ultima tappa di questo tour è interamente dedicata a Easy Street Records, iconico negozio di dischi aperto nel 1988 e ubicato al 4559 California Ave SW, nell’altrettanto iconica West Seattle. Per chi volesse approfondirne la storia, allego l’intervista del Westside Seattle al fondatore Matt Vaughan.

Oltre a vantare due piani di espositori stracolmi di vinili, permettetemi una menzione speciale al bagno del locale: le pareti, completamente dipinte di giallo acceso, complete di fiori colorati e scritte, sono un omaggio ai mitici De La Soul. Intanto, un altoparlante trasmette a tutto volume i Been Stellar. Questi dettagli penso dicano già molto del luogo in cui ci troviamo.

Da Easy Street faccio la conoscenza di Wyatt Pinto, che si è trasferito da New Orleans e lavora qui da otto mesi.
Mi racconta che il negozio ha avuto da sempre un ruolo cruciale nella scena grunge di Seattle, contribuendo alla popolarità di band come i Nirvana, Alice in Chains e Soundgarden. Oltre a vendere dischi, Easy Street è celebre per i suoi concerti dal vivo: artisti del calibro dei Pearl Jam, Alice in Chains, The Sonics, Fastbacks e Lana Del Rey hanno calcato il suo piccolo palco. E, nonostante l’ascesa delle piattaforme di streaming, la vendita di dischi, almeno in questo caso, continua ad andare forte.
Tra le band emergenti, Wyatt mi segnala alcune delle sue preferite: i Checkbook, i Fluung e i Biblioteka.

Guardando alla musica di Seattle in questo momento, è interessante constatare la forte spinta all’inclusività e la voglia di esprimersi liberamente. La scena qui è realmente accessibile a chiunque lo voglia, non ci sono barriere o elitismi: puoi assistere a un concerto e incontrare persone aperte, pronte a parlare di tutto, dalla musica alle questioni sociali e politiche. E se per caso ti capita di inciampare durante il pogo, ci sarà sempre qualcuno a tenderti la mano per ricominciare.

Jelena Bosnjakovic

Cresciuta ad agnolotti e rock 'n roll jugoslavo. Comunicatrice e viaggiatrice. Può essere la musica un metro di giudizio? Sì. Siamo ciò che ascoltiamo.

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