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Ask That God è il disco pop nostalgico di cui non sapevamo di aver bisogno

I globetrotter australiani traducono la loro esperienza in un viaggio synth-pop ricchissimo di riferimenti che omaggiano diverse decadi musicali


Nella parentesi storica in cui si cominciava a percepire la ricomparsa di un sound di ispirazione anni ’80, due ventottenni australiani si innamorano dei suoni del primo sintetizzatore polifonico commercializzato al mondo – un Yamaha CS-80 trovato in una chiesa di Brooklyn – e formano il loro leitmotiv,  per poi andare a nozze con la sconfinata collezione di tastiere vintage dello studio Linear Recording di Sydney.

Il risultato fu Walking On A Dream, il coloratissimo punto di partenza della coppia, uscito nell’autunno del 2008 e accompagnato dalla creazione di un mondo psichedelico sulla falsa riga del lavoro dei MGMT, con costumi e ambientazioni eccentriche ma con un’impronta ancora più pop, più trasversale.
La sensazione, nella frenesia di fine decennio, fu quella di avere una gamma di artisti impegnati a produrre tracce elettroniche soft e intelligenti, qualcosa di leggero e allegro ma a suo modo dal sapore nostalgico e introspettivo. Un nuovo easy-listening da mettere in chiavetta e godersi sulla strada per il mare senza sentirsi giudicati dall’essere stati coinvolti da un tormentone estivo usa e getta.

L’album d’esordio degli Empire Of The Sun usciva oltre tre lustri fa piazzandosi con la title track al 19° posto della classifica italiana nella primavera del 2009. Confrontare le classifiche italiane dei decenni passati con quelle di oggi è un’esperienza drammatica, non tanto per i contenuti quanto per la mancanza di varietà. Ad oggi nelle prime 30 posizioni troviamo gli stessi 15 artisti, praticamente tutti italiani e in molti casi in featuring tra loro.
C’è stato un momento in cui il concetto di tormentone estivo è stato estremizzato – probabilmente nell’estate del 2017, quella di Despacito , in pieno scandalo del secondary ticketing in cui sotto il sole di Riccione si rivendevano i biglietti dei Radiohead, perché a pochi era rimasta la stessa voglia di Novembre di deprimersi in chiave di SI minore con Jigsaw Falling Into Place.

Questa cosa tutta italiana di piazzare in classifica una rosa di singoli tattici e monouso tra Maggio e Luglio non vale nel resto del mondo. Non vale per dischi più impegnati e non vale nemmeno per un disco divertente come Ask That God, che anticipa un tour di quattro date nel mite inverno australiano.

I primi quattro brani dell’album fanno quello che deve fare un ottimo disco pop: volano con l’agilità di un libro facile, ma scritto bene e ricco di contenuti. Changes è in perfetta continuità stilistica con i loro lavori precedenti e non lascia intendere fratture d’intesa tra Luke Steele e Nick Littlemore negli otto anni passati dall’ultimo LP, Two Vines.
Il tappeto di synth in Cherry Blossom accompagnato dalla voce di Steele è un delizioso rimando retrowaveMusic On The Radio riconduce invece alla dance anni ’70 col basso in ottave, per poi tornare in pieni anni ’80 con The Feeling You Get: basse saltellanti, accenti e vocalizzi con un bel mordente new-romantic e un ponte con un accenno di assolo.

Avevate la mia curiosità, adesso avete la mia attenzione.

Littlemore ha dichiarato: «Potrebbero esserci state fino a 1.200 canzoni che abbiamo scritto per arrivare alle 12 che abbiamo qui». Per quanto quest’affermazione appaia ingigantita, ci fa capire l’autenticità del percorso degli Empire Of The Sun: in Ask That God hanno una voglia matta di stare in studio, di scrivere testi mentre sono in viaggio e di lavorare su melodie e suoni vintage prima ancora di cercare la hit per riconfermarsi come accadde con Alive nel 2013. Sono riusciti nell’impresa di maturare continuando a trasmettere con efficacia attraverso la fedeltà ai loro stilemi, senza sedersi a rielaborare e con rinnovata energia.

AEIOU è in collaborazione con gli PNAU, il progetto di Littlemore che questa volta si fonde con la voce di Luke Steele amalgamandosi in un pezzo con la cassa dritta dallo spirito eurodance.
Non c’è un brano nei primi otto che non abbia una melodia catchy e che non sia ricco di riferimenti: in Television il rimando è ai Daft Punk dell’era Discovery, in Happy Like You all’house upbeat di inizio millennio, con testi sempre in bilico tra realtà e immaginazione, a volte surreali.
Revolve è la vera perla da viaggio in riviera con i finestrini aperti; fin qui l’album, senza sfociare nell’ottimismo tossico, sembra dirci: «C’è del buono in questo mondo, padron Frodo: è giusto combattere per questo!».

Anche se passaggi più onirici come Wild World o banali come nella title track Ask That God non sorprendono e non esaltano (ma non ci spingono nemmeno a skippare), entriamo in pieno surrealismo con gli oltre 6 minuti di Rhapsodize per poi chiudere sulle dolci ma prevedibili note di piano della ballad Friends I Know.

D’accordo, non è nulla di nuovo. Non è un disco impegnato, non è imbottito di sperimentazione.
È un disco pop, senza la pretesa di essere un game-changer. E mi sorprende il fatto che qualcosa che concepivo come al limite del guilty pleasure, oggi mi appaia come qualcosa che ho il bisogno di sentire passare ogni tanto in radio e di ritrovare da qualche parte in classifica. Anche se, almeno in Italia, difficilmente accadrà.

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