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La dimensione live è l’estensione naturale di Fulminacci

Di fronte a un pubblico giovane e visibilmente emozionato, Fulminacci incanta il Flowers Festival di Collegno, dimostrandosi un artista eccezionale, nato per il palcoscenico. Tra coreografie di gruppo e arrangiamenti maniacali, il concerto si trasforma in una festa: ospite d’eccezione, Willie Peyote


Ragazzi giovani e giovani coppie innamorate, sorrisi che affiorano come arcobaleni dopo la tempesta. Ancora una volta il meteo ha graziato il Flowers Festival, cessando la furia dei suoi nubifragi appena una mezz’ora prima del concerto, in barba alle previsioni che minacciavano di sabotarlo. Rifugiato nelle proprie automobili parcheggiate di fronte agli schiamazzi dei paninari, il pubblico del festival attendeva impaziente che smettesse di diluviare, per poi uscire e stiracchiarsi, come reduce da un lungo letargo, pronto a dirigersi in massa verso l’area concerti. Il parterre si riempie in poco tempo, trasformando presto la serata in uno degli appuntamenti più partecipati di tutto il calendario.

Ad aprire le danze è Mazzariello, cantautore campano di classe 2001. La scelta è ottima: il giovane artista anticipa bene le vibes che verranno, accompagnando il pubblico lungo la tratta Napoli-Roma. Il viaggio è più breve di un Frecciarossa, ma mezz’ora è più che sufficiente al musicista per far scattare il feeling, per farsi amare da un pubblico che non è il suo. Certo, aprire i concerti è spesso un mestiere infame: la gente disinteressata parla a voce alta, per farsi sentire dagli interlocutori; quella interessata – ed eccomi qui, signor Giudice – è infastidita dal continuo brusio di sottofondo che quegli altri non smettono di generare. Eppure, Mazzariello sa farsi ascoltare, sa farsi voler bene: per la sua simpatia, di secolare eredità partenopea; per la sua musica, spontanea e coinvolgente, pur nella semplicità di un set ridotto a due persone.

Accompagnato in scena dal tastierista Giuseppe Di Cristo, che per lo più asseconda la chitarra ritmica di Mazzariello con riempimenti e arrangiamenti di synth, string e horn della sua Nord Stage, il duo porta al Parco della Certosa di Collegno un cantautorato pop – con retrogusto indie – delicato ma incalzante, che ha l’effetto di un abbraccio. Fuori con appena due EP, Mazzariello ha suonato gran parte del suo repertorio: dall’ipnotica Finestre Verdi alla malinconica Bambini Per Sempre, registrata in compagnia di Altea; passando per Vertigini e Pubblicità Progresso, entrambe battezzate dalla colonna sonora della serie TV Summertime, targata Netflix. Proprio Pubblicità Progresso è l’occasione, per l’artista, di inserire all’interno del brano un mash-up – che sa di cover e tributo – con Missili di Giorgio Poi, scritta in featuring con Frah Quintale. Tra gli incitamenti del pubblico e le torce dei cellulari tese in aria malgrado la luce ancora crepuscolare, Mazzariello esce di scena, lasciando un pubblico ormai caldo e numeroso.

A precedere l’ingresso della band di Fulminacci è un messaggio registrato a mo’ di compagnia aerea – un’idea che, neanche a farlo apposta, aveva utilizzato Tom Morello appena la sera prima alle OGR di Torino –, che invita i passeggeri ad allacciare le cinture e tenere spenti i cellulari. «Anzi no, – si corregge la voce fuori campo – i cellulari potete tenerli accesi, per fare qualche storia su Instagram taggando la band; anche il tastierista, ché sennò si offende». Su uno sfondo di schermi luminosi e luci colorate prende poi finalmente vita il live di Filippo Uttinacci, in arte Fulminacci, sulle note di Borghese In Borghese, uno dei primi successi che l’artista romano ha portato in esordio sul palco del Primo Maggio a Roma, nel 2019.

Fin dai primi istanti del live, si intuisce che la cura dei dettagli è maniacale: nella scenografia, orchestrata per mezzo di una serie di schermi verticali che, in un effetto caleidoscopico di luci e di colori, riproducono stralci di parole, suoni onomatopeici e testi di canzoni; nella qualità dei suoni, perfettamente bilanciati – e non è così scontato – dal fonico di sala Sante Di Clemente; ma, soprattutto, nelle coreografie. Infatti, ogni membro della band – o perlomeno chi tra loro è in grado di muoversi –, si avventura in ogni zona del palco, districandosi in coreografie di gruppo da fare invidia alle big band di musica balcanica. Tra raffigurazioni geometriche in stile nuoto sincronizzato e ondeggiamenti all’unisono, tutti i musicisti tengono il palco con grande stile, rievocando una performance estetica che affonda le radici nel secolo scorso, figlia dei complessi funk orchestrali che oggi sopravvivono solo più nei live di Cory Wong e di pochi altri.

L’impressione, infatti, è che la musica di Fulminacci sia fuori dal tempo. Di chiaro stampo funky – ma anche cantautorale, nello stile melodico e sornione della tradizione romana –, l’artista scrive canzoni universali che, cantate con disinvoltura, trovano nella dimensione live la loro più naturale espressività. E il merito, in questo, è in gran parte anche della band che lo accompagna. Il basso di Roberto Sanguigni è l’anima funky del gruppo, che duetta a suon di slap con le incisioni ritmiche di Lorenzo Lupi alla batteria. I fiati di Riccardo Nebbiosi – al sax baritono e tenore – e di Giuseppe Panico alla tromba danno imponenza al suono complessivo, in accordo con le tastiere di Riccardo Roia. La chitarra di Claudio Bruno accompagna le cadenze ritmiche di Filippo, fatte di levare e palm muting, rivestendole di frasi armoniche, ora sognanti e introspettive, ora incalzanti e divertite.

Immancabile, a Torino, la partecipazione di Willie Peyote, ospite sul palco per cantare il brano Aglio e Olio, scritto a quattro mani con il cantautore romano. La scaletta, varia ed eterogenea, ha attinto a piene mani da ciascuno dei tre album della sua carriera: in apertura e chiusura le canzoni più ritmate, da La Vita Veramente a Brutte Compagnie e Filippo Leroy – dedicata all’attore francese da poco deceduto –; al centro, le canzoni più lente e struggenti, inaugurate da Le Biciclette, eseguita da Fulminacci al pianoforte e da Claudio Bruno che, alla chitarra elettrica, fraseggia un canto di sirena, sulle orme di Robert Fripp in Heroes di David Bowie.

Sulle note di Tommaso – riarrangiata in chiave punk rock per l’occasione – e di Santa Marinella, presentata dall’artista come «la canzone con cui ho perso il Festival di Sanremo», il live si chiude a cappella, dopo circa un’ora e mezza, travolto dal canto corale di un pubblico in festa, che mai ha smesso di ballare, di saltare, di cantare a squarciagola.

 

foto di Marco Bressello

Alessandro Bianco

Giornalista, musicista e Video Editor, classe 1992. Vivo a Torino, in un mondo d’inchiostro e note musicali, di cinema e poesia: da qui esco poco e poco volentieri, ma tu puoi entrare quando vuoi.

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