La cult band britannica torna dopo 24 anni con l’attesissimo nuovo album: un disco decisamente introspettivo, dove non mancano le novità musicali e in cui l’ironia, la profondità e il disincanto tipici del frontman Jarvis Cocker riflettono con la consueta Different Class sull’inesorabile scorrere del tempo
«L’attesa del piacere è essa stessa il piacere» catechizza una citazione – poi ripresa dalla nota pubblicità di uno storico brand italiano di bevande – attribuita allo scrittore, filosofo e drammaturgo tedesco Gotthold Ephraim Lessing nel ‘700. Tutto ciò potrà anche essere vero, ma dover aspettare 24 anni per un disco nuovo di zecca dei Pulp è stato davvero troppo. O forse no? Già, perché di fronte all’uscita di More è proprio questo il dilemma: capire se, al netto delle impetuose performance live portate avanti dalle saltuarie reunion della band (l’ultima, decisiva, nel 2023) e degli apprezzati lavori da solista e da artista a tutto tondo del mattatore Jarvis Cocker, ne è valsa davvero la pena o se – per buttarla in caciara – potevamo anche farne a meno. Quel che è certo è che i Pulp ci mancavano, per tutta una serie di motivi che cercheremo di riassumere in queste poche righe.
More – erede di We love life e ottava fatica dei Pulp in una carriera lunghissima, variegata e non meno travagliata – è uscito pochi giorni fa per la celeberrima etichetta indipendente londinese Rough Trade e già questo depone a suo favore. Per l’occasione, Cocker (chitarre, dobro e synth, oltre alla voce) ha riunito altri tre membri storici come Nick Banks alla batteria, Mark Webber alle chitarre e Candida Doyle alle tastiere, al pianoforte e ai synth, circondandosi di altri trenta musicisti e di uno dei produttori più influenti del rock britannico: quel James Ford che sta dietro al successo di Romance dei Fontaines D.C. e che abbiamo visto negli ultimi anni al lavoro con – tra gli altri – Arctic Monkeys, Black Country, New Road e Depeche Mode.
Il risultato di tutti questi elementi messi insieme è, appunto, More: un album che, già dal nome, anticipa quello che ascoltatori e ascoltatrici possono trovarci dentro, ovvero molto di più di quello che potevamo aspettarci dai Pulp. Già, perché oltre alla consueta ironia disincantata del frontman – specialità della casa in grado di influenzare generazioni di performer dandy-outsider-bohémien ad ogni latitudine (tra cui il nostro tanto amato Francesco Bianconi) – in 50 minuti abbondanti il disco offre spunti che vanno al di là dell’identità pulpiana a cui eravamo abituati.
Tra archi orchestrali e violini solisti che si fondono a suggestioni più elettriche ed elettroniche, lampi disco e funky, con estremi addirittura soul e pezzoni pop più classici, a sessant’anni suonati Cocker e i suoi Pulp portano il proprio immaginario e il proprio stile – interiore ed esteriore, di scrittura e di vita – a riflettere su uno dei crucci più esistenziali della storia dell’umanità: l’inesorabile scorrere del tempo, con tutti gli strascichi fisici e psicologici che questo si porta dietro. E non importa se la voce del leader – a tratti – inizi a sentire il peso dell’età, perché a fare da collante ci sono profondità di introspezione e la solita, innegabile Different Class, nell’anno del trentennale dell’album cult di Disco 2000 e Common People.
Passando alla track list, non possiamo non ricordare come More sia dedicato principalmente alla memoria del compianto bassista Steve Mackey, morto nel 2023 a causa di una malattia mai rivelata. E non è un caso se, ad aprire le danze, c’è proprio l’incessante linea di basso di Spike Island: citando uno storico concerto degli Stone Roses, il primo singolo estratto dall’album ci riporta come una macchina del tempo alle origini del britpop per suggerire bilanci sulla carriera musicale e sul ruolo dell’artista. A seguire, Tina esplora il rimpianto per amori potenziali e desideri inespressi raccontando dell’incontro con una donna dopo molti anni, mentre Grown Ups affronta con delicatezza i contrasti tra l’adolescenza e l’età adulta, alla ricerca della tanto sospirata maturità.
Dopo un inizio tirato, il primo vero cambio d’atmosfera si ha con i lenti Slow Jam – geniale e surreale conversazione con Gesù su amore, fede e relazioni – e Farmers Market, dove uno struggente binomio violino-pianoforte fa da contraltare alle opportunità nascoste dietro ad un apparentemente innocuo ma fatale incontro nel parcheggio di un mercato. I due pezzi appena citati forniscono un assist invitante per introdurre un altro tema scottante – il sesso – provocatoriamente affrontato da un punto di vista maturo attraverso My Sex.
Ed è a questo punto che i Pulp decidono di dare tutto con il secondo singolo Got to Have Love, una bomba disco che – come una moderna Don’t Let Me Be Misunderstood nella versione dei Santa Esmeralda – ci spinge verso due tra gli istinti più innati dell’essere umano: ballare e amare. Degne di nota anche le successive Background Noise – malinconica presa di coscienza sul senso di solitudine con echi di Frank Sinatra – e Partial Eclipse, in cui l’eclissi diventa metafora di incertezza e nostalgia. Il disco sfuma, si fa per dire, con altre due ballad magistrali: Hymn of the North e A Sunset – scritta con il cantautore ed ex musicista della band Richard Hawley – una chiusura perfetta perché lascia spazio ad orizzonti (e tramonti) indefiniti.
Lungo ma scorrevole, definito ma variegato, impegnato ma leggero, More è un disco quadrato, che gioca su due sentimenti pericolosi come malinconia e nostalgia per scavare a fondo nelle fragili coscienze – soprattutto – di noi quarantenni, cinquantenni o sessantenni. E che non può non emozionare chiunque abbia un amore o un’amicizia non corrisposta, un rimpianto, un rimorso o qualcosa da farsi perdonare, ma anche chiunque abbia voglia di continuare a ballare, sognare e cercare nuove strade. Per tutti questi motivi, tornando al dilemma d’apertura, qui lo diciamo, lo gridiamo e lo ribadiamo: we want another encore, we want More… che bello invecchiare con (e come) i Pulp!