Ana Lua Caiano e La Niña incantano il pubblico di Cascina Falchera con due performance potenti, intime e politiche. Tra tradizione e sperimentazione, le artiste danno voce a un Mediterraneo complesso, che vibra di memoria, identità e lotta collettiva
Sono passati ormai alcuni giorni dal live di Ana Lua Caiano e de La Niña e continuo a pensarci, a confrontarmi con amici, a discuterne, perché tantissimi sono stati gli spunti e le suggestioni. Ci siamo presi qualche giorno per organizzare le idee, ora ve lo raccontiamo.
Vi abbiamo già parlato di Heroes Festival e della filosofia che anima la kermesse (qui). La tappa torinese si è articolata in tre date che hanno visto in apertura un talk di Murubutu il 15 maggio e in chiusura, il 17 maggio, l’attesissimo live – sold out – di Carola Moccia, in arte La Niña, aperto dall’artista lisboneta Ana Lua Caiano. Le tre giornate si sono svolte nella cornice un po’ bucolica di Cascina Falchera, venue accuratamente selezionata dall’organizzazione del Festival per l’attenzione posta dal progetto Cascina Falchera su sostenibilità, educazione e comunità.
Se dovessi racchiudere in una sola parola il live di sabato sera, questa sarebbe complessità: indubbiamente complesso, infatti, è il taglio adottato da entrambe le artiste, che hanno proposto un mix affascinante di musica tradizionale e contemporanea, ma complesso è anche il messaggio convogliato da entrambi i progetti musicali. Attraverso la loro musica, Ana Lua e La Niña parlano di identità – artistiche e personali – ibridate, stratificate, complesse, appunto. Parlano di un Mediterraneo che da sempre è crocevia di incontri, un melting pot che ha prodotto preziose convergenze culturali e in cui le barriere si abbattono. Lo stesso Mediterraneo che oggi è scenario di morte, muro d’acqua impenetrabile per chi cerca la fortuna altrove, per chi non ha più una casa, perché quella casa è diventata un posto ostile da cui scappare. Proprio di questo parla La Niña durante il suo live: ogni pezzo è inframezzato da una riflessione, momenti di condivisione che abbracciano il pubblico e lo rendono parte del messaggio sociale e politico che l’artista vuole lanciare attraverso la sua opera. Ogni barriera causa dolore, ogni barriera che costruiamo ci rende un po’ più soli e questo mi ricorda una poesia di John Donne che ho sempre amato molto: «nessun uomo è un’isola, completo in se stesso / Ogni morte d’uomo mi diminuisce, perché io partecipo all’Umanità».
La musica, linguaggio universale che parla senza barriere, è uno strumento che bypassa ogni codice culturale o particolarismo per toccare corde profonde, umane e universali ed è per questo motivo che il pubblico di Cascina Falchera accoglie da subito con calore e partecipazione il sound elettronico di Ana Lua Caiano, che ha da poco pubblicato il suo primo LP Vou Ficar Neste Quadrado. L’artista destruttura il canone della musica tradizionale su cui innesta tutto il suo lavoro per impastarlo di elettronica sperimentale. Si sentono chiaramente le sue ispirazioni tradizionali e mi riferisco non solo ai canti battaglieri – la música de intervenção – che sostennero la Rivoluzione dei garofani contro il regime militare instaurato da António Salazar in Portogallo nel 1933 e rovesciato nel 1974, ma anche al cante alentejano polifonico, conservato ad esempio nei sample sincopati che l’artista utilizza. I brani sono taglienti con un potente tratto percussivo, mentre l’approccio è – appunto – quello destrutturato e sincopato del post-club, con incursioni dark tipiche del trip-hop e distonie industrial.
Ana Lua e La Niña attingono a un repertorio di archetipi musicali collettivi che parlano a una dimensione molto più corporea e viscerale di quella mentale: i corpi vibrano secondo ritmiche universali e sono attraversati da storie universali, la storia di uno è la storia di tutti, ed è per questo che «ogni morte d’uomo mi diminuisce».
Non trovo aggettivo migliore di quello utilizzato dal nostro Paolo Albera, a fine concerto, per descrivere il live de La Niña: tellurico. Carola Moccia sale sul palco assieme alle coriste e polistrumentiste Lidia Palumbo e Francesca del Duca e all’art director Alfredo Maddaluno per portarci immediatamente in quella dimensione ritmica che accompagnerà tutto il live, una trama percussiva feroce e densa creata da tammorra, nacchere, maracas e tamburelli. Rispetto a Vanitas (2023), in Furèsta La Niña porta un’identità forte, sostenuta da grande maturità artistica e da un importante lavoro di ricerca sulle fonti musicali. Partendo dalla musica tradizionale napoletana, l’artista ha esplorato nel disco i luoghi, le sonorità e le suggestioni di tutta la tradizione musicale del Sud Italia, presentata attraverso il filtro contemporaneo dell’avant-elettronica. Le voci di Furèsta raccontano una storia corale: nell’album troviamo campionata in apertura di Guapparìa la Zia Viola, una vecchina novantenne ripresa nel documentario di Salvatore Raiola Voci del popolo contadino, Voci di tamburo mentre saluta un amico di vecchia data cantando. Troviamo anche il vibrato tipico della canzone napoletana ma in autotune, mix sorprendente che mi ha immediatamente riportato alla voce metallica della Zia Teresa, 87 anni, vedova da 56, immortalata in una Lucania fuori dal tempo mentre eseguiva la litania rituale della lamentazione funebre sulla tomba del marito nel documentario Sud e magia. In ricordo di Ernesto de Martino, del 1978. La stessa Carola Moccia ha dichiarato, nella puntata dedicata a Concetta Barra della docu-serie Donne di Campania prodotta da Rai Storia nel 2024, che «la musica popolare è la musica che viene dal basso, che però è in grado di restituire questo paradosso di essere in realtà la forma probabilmente più elevata di musica, nasce per celebrare quelli che sono dei momenti intimi del popolo, nasce come musica rituale, nasce come musica strettamente connessa a esigenze sociali». Una musica svincolata da logiche discografiche di mercato e, per questo motivo, forma d’arte pura. Come ha sostenuto la stessa artista in un’altra intervista, citando Marx, il capitalismo è destinato al collasso del raziocinio, la comunicazione massiva degli ultimi decenni ha portato a un appiattimento dei prodotti culturali e in questo quadro le anime furèste – indomabili – cercano necessariamente la rottura dello schema, anche tornando a una dimensione artistica più genuina, meno standardizzata e più di sostanza.
Il live è pura vibrazione nello spazio, impulsi intermittenti che alternano ondate di energia (Tremm’, Guapparìa e Figlia d’ ‘a Tempesta, ormai divenuta grido di battaglia transfemminista) a momenti più introspettivi (come la bellissima Ahi! e Chiena ‘e scippe). La performance è punteggiata da alcuni momenti quasi angelici in cui il pubblico è sospeso, come la dolcissima ninna nanna Pica Pica, in cui il pubblico trattiene il fiato pensando ai volteggi della gazza ladra – il cui nome scientifico è appunto pica pica, espressione che in napoletano vuole anche dire «intestardirsi finché non la si spunta» – e Respira. Il pizzicato di Fortuna fa emozionare, ricordando quello specchio «ca’ se chiamma Mare» ma dove «nun ce sta puorto sicuro». Non mancano poi gli omaggi alla canzone napoletana, con Era de maggio e Maruzzella, ma è su Mano Longa – bonus track presente solo nella versione in vinile – che mi sono commossa. La Niña ci racconta che Mano Longa è una strega precipitata in fondo a un pozzo e che con questo braccio lunghissimo afferra le persone trascinandole giù con sé: la leggenda di Mano Longa è comune a tutto il Sud Italia, parte di un affresco popolato da spiriti della tradizione agreste, mostri acquatici e fantasmi, munacielli, janare e donne indemoniate. Ne è un esempio la Purif ritratta da Brunello Rondi ne Il demonio (1967), donna anticonformista schiacciata da una società patriarcale. Anche Vinicio Capossela ci racconta nelle sue Canzoni della Cupa del demone meridiano, La bestia nel grano, che aspetta acquattato in mezzo alle spighe nella controra – perché la vera ora degli spiriti non è la mezzanotte, ma quello squarcio rovente del giorno in cui non vediamo più la nostra ombra –. Per La Niña, però, Mano Longa è anche un’allegoria della solitudine, un’anima chiusa in un pozzo profondo da cui non riesce a uscire e fa sprofondare con sé le altre persone, per sentirsi – forse – meno sola e alleggerire il peso che ha nel cuore.
È qui che la musica può liberare, quella stessa musica che veniva suonata per scacciare il male dalle donne attarantate ora diventa strumento di espressione, un veicolo per sprigionare energia e per aggregare. Danza di liberazione e rito collettivo, perché nessun essere umano è un’isola e nessuno si salva da solo.