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Vivere con integrità: Kae Tempest e la forma del sé

Con Self-Titled, Kae Tempest abbandona la coesione musicale dei lavori precedenti per abbracciare una forma più libera, frammentata, capace di restituire tutta l’urgenza di un percorso identitario profondo. Un album necessario che sceglie la verità e l’amore come uniche direzioni possibili


«I want to live with integrity»: è con queste parole che in un post su Instagram del 2020 l’artista Kae Tempest – all’epoca Kate Tempest – fece coming out come persona non-binary annunciando al suo pubblico di aver iniziato un processo importante di esplorazione di sé, un processo che era assieme amore, rinascita e rispetto per quella che era stata Kate e per quell* che sarebbe stat* Kae.

«I want to live with integrity»: una dichiarazione che mi accompagna da quando avevo poco più che vent’anni, quando vivevo sola – lonely and alone, si direbbe in inglese – piena di dubbi e non troppo felice in una grande città. Come si fa a vivere con integrità? «I woke up this morning, didn’t recognize the man in the mirror», canta Kurt Vile in Pretty Pimpin’: cosa fare quando l’immagine nello specchio non ci assomiglia più, quando la vita non risponde più ai nostri valori, al nostro sentire, alla nostra identità, quando il lavoro è tossico, quando le convenzioni ci schiacciano a tal punto che rischiamo di perderci? Ossessionata dalla narcosi, dal «produci, consuma, crepa» di ferrettiana memoria, la me ventenne si rispose che la mia integrità sarebbe stata vivere di sbieco, a qualsiasi costo. Oggi non so.

«I have tried to be what I thought others wanted me to be so as not to risk rejection. This hiding from myself has led to all kinds of difficulties in my life». Ed è di queste difficoltà, di questo dolore che Kae – che oggi utilizza pronomi maschili – ha deciso di parlare nell’ultimo album, Self-Titled, opera estremamente densa e personale che riflette in ogni suo verso la penna acuta dell’autore.

Nato nel quartiere londinese di Brockley, Kae è un artista poliedrico nel vero senso della parola: nel corso della sua carriera, ha esplorato diversi mezzi espressivi che vanno dal rap alla drammaturgia passando per la poesia e lo spoken word, con una potenza che lo ha portato a vincere – tra i tanti altri premi – anche il prestigioso Leone d’Argento alla Biennale di Venezia Teatro.

La musica e l’arte di Kae, la sua poesia, fondono amore e impegno sociale, i suoi personaggi esprimono un senso di smarrimento interiore, i testi spronano a uscire dall’isolamento e a incontrare gli altri. Pur rifiutando l’etichetta di artista politico, Kae descrive contesti urbani segnati da divisioni sociali, marginalizzazione e dagli effetti del capitalismo, per i quali l’unico antidoto è l’empatia e la connessione. Empatia che – come scrive Olivia Laing in Funny Weather: Art in an Emergency – non è qualcosa che ci capita, ma è un tratto che si coltiva con duro lavoro, anche e soprattutto attraverso l’arte.

In Self-Titled, Kae ha deciso di introvertere il riflettore, raccontarsi e raccontare soprattutto il percorso di autoconsapevolezza e transizione che ha iniziato qualche anno fa. Nel commovente pezzo Know Yourself, il sé di oggi dialoga con il sé di ieri in un continuo viaggio temporale tra presente e passato: il testo è complesso e presenta le inquietudini di un* giovane nella dolorosa ricerca della propria identità («when I was young, I sought help from my older self / I came into my head, I told me know yourself»), utilizzando come efficace contrappunto alla propria voce un vecchio sample di sé stesso risalente a qualche anno fa. I versi finali sono potentissimi («the words of the bridge between the present and the past / I know myself at last») perché incarnano la spinta trasformativa dell’album, spinta che era già presente da un punto di vista musicale nell’album precedente The Line Is A Curve – l’elegantissima elettronica di I Saw Light o Nothing To Prove – e che qui invece investe aspetti identitari profondi.

Il disco si apre con I Stand On The Line, pezzo piuttosto dramatic con cui Kae richiama immediatamente l’attenzione sulla dimensione dolorosa e liberatoria di questo processo di autoaffermazione del sé: è una lotta per respirare, respirare nel suo corpo – come ha detto lui stesso in una recente intervista –, è la sua vita e, anche se non intende esplicitamente essere politico, di fatto la sua lotta personale diventa politica.

In Statue In The Square Kae alterna ritmi diversi, aprendo con una strofa vicina allo spoken sorretta da una linea di piano inquietante per poi muoversi verso una seconda strofa estremamente tecnica radicata nel grime londinese – d’altronde il producer è Fraser T Smith –. In questo pezzo, Kae riflette sulla rappresentazione mainstream quasi voyeuristica delle soggettività trans e sulla transfobia che serpeggia nella società; il clima di tensione è acuito da una serie di sirene che sostengono i ritornelli. Anche il video non è da meno: girato a Deptford, Londra, il video è un bianco e nero piuttosto scolpito per la regia del collettivo Boy Dykes in cui compaiono personalità di spicco dell’artivismo LGBTQIA+ locale come Princess Julia, Sweatmother e Dr. Ronx.

Il disco alterna una serie di istantanee molto diverse: ci sono le incursioni synth pop radiose di Sunshine On Catford – dichiarazione d’amore per Londra registrata assieme a Neil Tennant, Pet Shop Boys – e quelle leggermente più cupe di Bless the Bold Future. Qui l’artista si rivolge a un ipotetico figlio («Dear unborn child that I can’t bear having / Look at the state of the planet / What kind of life would you have if you had it?») e riflette nei suoi versi il dolore di una battaglia interiore profonda comune a molte persone, quella che vede contrapposto da un lato l’ego e la scintilla d’amore negli occhi del partner che spingerebbe ad avere figli e dall’altro il senso di responsabilità che impone di non mettere al mondo  un* bambin* in queste condizioni precarie.

In Self-Titled, Kae Tempest rinuncia alla coesione musicale compatta che aveva caratterizzato i suoi lavori precedenti, scegliendo invece una forma più frammentata, ibrida, a tratti dissonante. Ma è proprio in questa apparente discontinuità che risiede la forza autentica del disco: ogni pezzo diventa una tessera autonoma di un mosaico interiore, uno spazio di verità e vulnerabilità dove l’urgenza del messaggio prevale su ogni esigenza di forma. È un album che non cerca di piacere o rassicurare, ma di raccontare, con coraggio e precisione, la complessità di un’identità che si ridefinisce, si espone e si afferma. In questo senso, Self-Titled è forse il lavoro più necessario di Kae perché più che mai oggi, come ci ricorda lui stesso, vivere con integrità è un atto rivoluzionario.

Chiara Correndo

CCCP, drum'n'bass e Ornella Vanoni. Made in Turin.

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