L’Heavy Psych Sound Fest è un incredibile festival di due giorni organizzato tra Venezia e Bologna dall’omonima etichetta, la Heavy Psych Sound Recrds. Venerdì sera, al TPO di Bologna, si è vista una realtà ben strutturata che, oltre a produrre degli artisti mostruosi, continua a organizzare questi bellissimi eventi di cui c’è sempre bisogno
Organizzare in modo impeccabile una due giorni spalmata su due città diverse, con circa 16 gruppi che si alternano tra il venerdì e il sabato, non dev’essere una cosa facile. E se la maggior parte dei gruppi in questione è per lo più composta da membri che somigliano a Kaio, il generale delle tenebre di, la cosa diventa ancora più difficile.
Da quel che si è visto venerdì al TPO di Bologna, però, la missione – o meglio, la sua prima parte – è riuscita perfettamente. Il fatto che le location scelte per l’evento – TPO di Bologna e C.S. Rivolta di Marghera – siano due spazi sociali, oltre a essere una dichiarazione d’intenti, ha sicuramente contribuito a rendere l’atmosfera molto rilassata: nessun buttafuori nervoso, nessun barista sottopagato, acqua gratuita e prezzi più che accessibili. Una di quelle belle situazioni in cui le persone vogliono ascoltarsi dell’ottima musica in pace senza bisogno di stronzate testosteroniche che, sinceramente, hanno abbastanza stufato.
Uno dei (tanti) punti di forza dell’Heavy Psych Sound, infatti, è proprio quello di riuscire a dare un’eterogeneità a tutti i suoi eventi, sia dal punto di vista musicale, sia dal punto di vista del pubblico: headbangers veterani, freakettoni attempati, motociclisti, quarantenni in camicia hawaiana, giovani cosmonauti dell’underground e persino un ragazzino che avrà avuto si e no 13 anni, con i capelli dritti e il polsino degli Slayer. Che il concerto emani delle positive vibes, si può anche capire osservando i vari pit partiti durante la serata: nonostante le sembianze da danza di guerra, pure quel pogo selvaggio sembra voler ripudiare ogni logica di prepotenza o prevaricazione.
Altro punto di forza dell’evento è il totale rispetto degli orari annunciati che, una volta superata la soglia dei 30 anni, è una vera manna dal cielo: divisi in due stanze – sala principale e palestra popolare –, i concerti iniziano puntualissimi senza quei noiosissimi cambi palco da mezz’ora e sfatando finalmente il mito dell’orario italiano. Di fronte ad una situazione del genere, i gruppi ingaggiati non possono che essere presi bene e questo lo si può capire dalle continue interazioni col pubblico, soprattutto da parte dei gruppi stranieri che continuano a chiedere che cosa significhino le bestemmie urlate e altre frasi tipo: «la droga dà, la droga daje».
Nemmeno il tempo di staccare il fuzz che tocca ai Margarita Witch Cult, band di Birmingham, composta da tre hippies in fissa con il metal. Capelli che roteano, distorsori pesanti, una tecnica incredibile e una latente – ma persistente –passione per i The Who, che si nota non solo nei giri di basso, ma anche nelle tipiche movenze che caratterizzano molti gruppi inglesi.
I terzi a salire sul palco sono gli americani Black Pyramid. Per immaginarsi al meglio questa band, bisogna pensare a un gruppo di vichinghi extraterrestri che, tra una razzia planetaria e l’altra, passano il proprio tempo libero a suonare. Con uno stoner metal duro al punto giusto e venature oniriche tipiche dello space rock, i Black Pyramid ci anticipano la colonna sonora che ascolteremo quando un esercito di navicelle spaziali verrà a distruggere la terra.
Arriva poi il turno degli Stoned Jesus, band stoner metal con molte influenze prog e, in alcuni casi, persino grunge. Oltre a suonare in modo – forse fin troppo – eccezionale, il frontman Igor Sidorenko è un trascinatore di folle in grado di coinvolgere il pubblico in modo divertente e piacevole. Piccolo surplus: i Gesù fattoni hanno suonato per un’ora avvolti totalmente dalle vampate della macchina del fumo.
I Cosmic Dead, penultimo gruppo della serata, sono strani e bellissimi allo stesso tempo. Nonostante la band – composta da basso, batteria e una specie di tastiere distorte – si definisca un «blob viscerale di space rock spinto da vibrazioni celestiali», la musica suonata dai quattro ragazzi di Glasgow è una sorta di techno-space-stoner che sembra prendere sempre una direzione diversa rispetto all’inizio. Il tutto, suonato con le movenze di tutti in perfetta sincronia.
Chiudono la serata i Conan, leggendario trio doom che non ha certo bisogno di presentazioni. Questi barbari di Liverpool sono la cosa più anni ’80 presente al festival: capelli bianchi, tatuaggi tribali mischiati con fiori di ciliegio giapponesi e la conferma che, fino a qualche anno fa, a Liverpool c’erano solo fabbriche, violenza, droga e sale prove. Fortunatamente, i Conan hanno bazzicato anche queste ultime, continuando a suonare quello sludge cupissimo in cui la chitarra suona come un basso e il basso suona come un qualcosa di ancora più basso del basso. E in quell’atmosfera da landa desolata che preannuncia la madre di tutte le battaglie, anche un piccolo problema tecnico – risolto nel giro di 20 secondi – sembra adattarsi perfettamente alla rappresentazione di quel mondo in cui la bellezza della vita consiste nello schiacciare i nemici e inseguirli mentre fuggono.
Come da cartellone, poi, all’una spaccata il concerto finisce e la gente se ne torna tranquillamente verso l’uscita, senza risse o ubriachezza molesta.