Giunto alla terza edizione, il festival itinerante nato dentro e per l’underground torinese conferma non solo l’ottimo stato di salute di un progetto solido, ma anche la postura di un’intera scena in grado di valicare anche i confini cittadini
Da quando esistono nicchie, sottoculture, target e pubblici di riferimento per i prodotti culturali si fa un gran dibattere su parole come “alternativa”, “indipendenza” e “underground”. In più, se colleghiamo la questione al mercato – o per meglio dire al capitalismo –, viene spesso utilizzata una parola: emergente. Come se ci fosse bisogno per forza di un obiettivo ultimo finalizzato al successo commerciale, perché chi crea arte può considerare legittima la propria attività solo se c’è chi la compra, chi la consuma. Per chi vi scrive, forse è arrivato il momento che ci lasciamo dietro queste logiche e iniziamo a pensare piuttosto ai contesti. Porzioni di realtà dove qualcosa funziona perché è collocata nella dimensione che gli appartiene. E può anche darsi che aspirare ad altro sia utile, ma non deve essere il discrimine di valutazione. Non è questa la sede per scendere troppo nel dettaglio in un discorso davvero così grande e complesso, perché di fatto saremo sempre il mainstream e l’alternativa di altre persone e di altre cose. Atteniamoci quindi alle già citate porzioni di realtà con un esempio locale, dal basso e autogestito direttamente da chi la musica la fa: il festival torinese musicale e itinerante Vertebre, che da pochi giorni ha concluso la sua terza edizione.
In una video intervista che il nostro Paolo Albera ha realizzato per Polvere, Federico e Jacopo – tra le persone che organizzano il festival, oltre ai militanti di una lunga serie di band in quella che è a tutti gli effetti una scena locale viva e pulsante – ci danno un perfetto spaccato di quello che è Vertebre nella loro concezione e nella realtà. Si parla di esigenza, di crearsi degli spazi autonomamente, perché spesso e volentieri non c’è una struttura che consente a gruppi nati da poco o con poco materiale all’attivo di esibirsi. Si parla di creare una rete dal basso, che sia autogestita da chi suona e che diventi via via un riflettore collettivo e condiviso. Si discute la possibilità di aprire i confini dei generi musicali e anche quelli territoriali: perché sebbene Vertebre si muova con disinvoltura entro determinati spazi sonori – il post-tutto che ruota intorno al rock contemporaneo – e sia nato come spaccato locale, non sono mancate incursioni esterne sia di suono che di territorio.
Nella appena conclusa terza edizione, per esempio, le band coinvolte arrivavano anche da fuori dell’area sabauda, mostrando che la visione di Vertebre nasce locale ma pensa globale, orientandosi sì su determinati suoni – perché più esplorati da chi organizza il festival – ma che però non sono mai una prerogativa esclusiva. Piuttosto, il punto di incontro è sugli intenti. Proprio come l’origine da cui hanno preso ispirazione per il nome della manifestazione — i dischi di contrabbando rëbra, ovvero lastre radiografiche su cui giovani persone dell’URSS incidevano musiche proibite dal regime per farle circolare e conoscere —, il festival si presenta come un canale di diffusione, curato e pensato ma non imposto. Una radiografia di quello che sta lontano dai riflettori, per scelta o per necessità, ma che alla fine è la vera e propria spina dorsale di un contesto culturale dove ogni gruppo è un disco osseo fondamentale per sorreggere il resto e dare al complesso una postura corretta.
Una scena con la schiena dritta, perché ogni pezzettino di ossa e cartilagine è al suo posto anche quando ce le si sfascia in mezzo al mosh pit – sempre rispettosissimo e con quella bella solidarietà punk che è sempre un piacere constatare –, in un concerto all’aperto di metà dicembre. Perché il calore vero è nella condivisione, nel creare nuovi spazi e saperli donare al prossimo sempre con la medesima passion,e senza mai precludere nulla a nessuna persona. Perché per creare una scena culturale va creata un’apertura, vanno i rimossi i confini, è capire e far capire che se le cose si fanno insieme è sempre meglio, coinvolgendo anche realtà non propriamente musicali ma che nella musica ci sguazzano come Eterogenesi, DueLibri e DueDischi, che erano sempre presenti in ciascuna delle tre date di Vertebre 3.
La lista dei nomi coinvolti – in ordine alfabetico: Absenthee, Collettivo Vertebre, HTN, Loyo, Mount Baud, Plastic Palms, Sabbatica, Sao Miguel, Le Schiene di Schiele, Specchiopaura e Tragic Carpet Ride – è di quelle che ti fanno ben sperare per il futuro. Così come gli spazi attraversati – Bunker, Spazio 211 e Comala –, anch’essi di rilevanza per la città, popolati da una realtà underground intransigente, convinta e convincente. Una testimonianza che parte dalle persone e le riunisce, accomunate dalla voglia di fare, di crescere, di reinventare.