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Un ponte sonoro tra Occidente e Oriente: l’esordio dei Kara Delik

Nel loro primo e omonimo album, i Kara Delik fondono post punk, rock anatolico, krautrock e psichedelia in un mix travolgente di suoni e culture, tracciando un ponte musicale tra Berlino, Londra e la Turchia più profonda


In un periodo storico in cui Occidente e Oriente non sono mai stati così lontani, può essere la musica a unire ciò che resta di questo mondo agonizzante? Molto difficile, quasi impossibile: ma a noi piace pensare di sì! E sarebbe bello se a farlo fosse proprio un trio post punk in grado di fondere voci, suoni, ritmi e culture. Stiamo parlando dei Kara Delik, freschi di pubblicazione del proprio primo e omonimo album dopo una manciata di EP (Tamam e la tetralogia Singularities I-IV).

Dunque, fate finta di essere a Londra e scavare un tunnel che, passando da Berlino, vi porta dritti dritti in Anatolia: ecco, è più o meno questo l’effetto che potrebbe farvi l’ascolto dei Kara Delik. La band, formatasi nel 2020 – in pieno lockdown, come raccontato dai propri membri in alcune interviste – nella capitale tedesca, fa di questo melting pot culturale un marchio di fabbrica e un punto di forza. Il tutto attraverso un sound mitteleuropeo di fine complessità che contamina il post punk – di chiara matrice anglosassone – con il rock anatolico degli anni ’70, il krautrock e il dub; alla ricetta, poi, vanno aggiunti un pizzico di psichedelia e testi in turco, tedesco e inglese.

A forgiare questa particolare ambientazione eurasiatica è principalmente il background musicale dei componenti della band, già attivi da tempo nella scena alternativa berlinese. A partire dalla voce principale, Barış Öner, che al cantato di chiara matrice popolare turca unisce il suono tipicamente orientaleggiante del saz, strumento a corda tradizionale utilizzato in diverse arti espressive locali. Uno stile che non riesce a passare inosservato anche grazie all’ottima sezione ritmica, rappresentata al meglio dal tedesco Andi Sommer al basso (oltre che ai synth, alla voce, alla registrazione e alla produzione) e dalla batteria di Eilis Frawley (anche voce), tedesca di origine australiana.

Tutti questi elementi hanno trovato ampio spazio nell’album d’esordio uscito grazie a Initiative Musik, il fondo governativo tedesco creato per sostenere la musica pop e jazz. Un album dalle atmosfere variegate, quasi quanto le culture di riferimento: Kara Delik, infatti, riesce a essere religiosamente aulico laddove la voce di Öner e il suono del suo saz si fanno più vicini alla tradizione popolare, ma anche occidentalmente rock laddove gli stessi si fanno più graffianti; i cambi di atmosfera e di ritmo all’interno delle singole canzoni risultano talmente repentini da lasciare disorientato l’ascoltatore, ma a fare da collante ci pensa quella tipica e claustrofobica cupezza post punk sottolineata da un convincente utilizzo di effetti quali eco, delay e riverberi.

Uno dei pezzi più rappresentativi, capace di farci immergere nei meandri dell’Anatolia più profonda pur restando con i piedi ben piantati in occidente, è sicuramente Jota. La traccia d’apertura, infatti, dopo un inizio caratterizzato da un cantato folk accompagnato da un’ipnotica melodia dai richiami orientali, sale improvvisamente di battiti quando basso e batteria iniziano a spingere, concretizzando nel migliore dei modi la fusione etnomusicale dei Kara Delik. Sulla stessa lunghezza d’onda sono anche le successive Here if you need, Feryad, Foreign Skies, Rinse wash repeat, Efe, Kandir Beni e Succession.

A segnare un cambio di passo nella tracklist sono invece Conveyor, Self Destruct e Franco, non a caso i pezzi dove a cantare sono principalmente Sommer (con voce baritonale) e Frawley (principalmente parlato): qui entriamo nel campo del post punk più duro e puro, dove a farla da padrone sono ritmi forsennati e isterici. A rendere il tutto più interessante ci pensa ancora una volta il saz, distorto e suonato come una chitarra elettrica. L’unica vera pecca è il poco spazio lasciato ai synth per tutta la durata dell’album, perché una loro maggiore presenza – specie per le parti più melodiche dell’album – avrebbe rappresentato un notevole valore aggiunto.

Cosa dire, quindi, di questi (e di questo) Kara Delik? Inserire così tanti elementi sperimentali in un debutto discografico può sempre essere un rischio, soprattutto in un genere già sufficientemente violentato come il post punk e soprattutto se si punta sulla leva etnica come segno di distinzione. In questo caso, però, l’esperimento ci sembra in gran parte riuscito. Il merito è dello stile personale che contraddistingue la band, fenomenale nel rivisitare la musica turca in chiave moderna attraverso tensioni minimali e improvvise esplosioni sonore. Possiamo definirli come i nuovi Molchat Doma? Presto per dirlo, ma di certo la band ha tutte le carte in regola per ritagliarsi uno spazio importante nel panorama musicale europeo.

Marco Berton

Giornalista non convenzionale: scrivo di diversity per lavoro e di musica per passione. Ossessionato da camicie e maglioni hipster, credo che la normalità non esista e che un altro mondo sia possibile.

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