Cosa accade quando si fondono l’eclettismo musicale di Mark Pritchard, la poliedricità di Thom Yorke e l’estetica visionaria di Jonathan Zawada? Tall Tales è un progetto che trascende il concetto tradizionale di album, è una scossa al sistema di fruizione sonora. In un’epoca dominata dall’ascolto frenetico e distratto, quest’opera ti invita a rallentare, perché oggi il vero lusso non è consumare, ma ascoltare davvero
Immaginate di trovarvi in un teatro e di avere la possibilità di ascoltare l’album e contemporaneamente guardare un film appositamente creato. L’artista visivo australiano Jonathan Zawada descrive Tall Tales come una «favola per il mondo moderno», un viaggio intrigante attraverso temi come l’innalzamento delle maree, la regalità e scenari di robotica, il tutto pervaso da immagini di cieli iridescenti. Il progetto audiovisivo, prodotto da Warp Records, è stato proiettato in data unica l’8 maggio in alcuni teatri e cinema selezionati, un giorno prima dell’uscita ufficiale dell’album. Questa esperienza cinematografica si presenta come una riflessione artistica sul futuro, in cui gli esseri umani saranno scomparsi – o si saranno fusi con la tecnologia – e ciò che resterà saranno solo echi frammentati e distorti della nostra cultura, natura e linguaggio.
Ad accompagnare questa fiaba cautelativa sull’uomo e sulla natura in declino ci hanno pensato il produttore britannico Mark Pritchard e il polistrumentista Thom Yorke, noto frontman di Radiohead e The Smile, la cui collaborazione affonda le radici in un’amicizia di lunga data. Nel 2016, infatti, i due hanno incrociato le loro intelligenze musicali in Beautiful People, brano angosciante e contemporaneamente attraente tratto da Under the Sun di Pritchard. Quello tra Pritchard e Yorke è il frutto di una visione condivisa della musica come spazio di libertà e sperimentazione, nonché come strumento di esplorazione emotiva e intellettuale.
La nascita di Tall Tales risale al periodo del lockdown, in cui Thom Yorke mise le mani su una manciata di strumentali di Mark Pritchard e li smembrò senza scrupoli: stravolse sintetizzatori, lacerò linee di basso, smontò ogni struttura e rispedì tutto indietro per la revisione di Pritchard. Forse era la claustrofobia dell’isolamento, o forse era la voracità insaziabile di Yorke per la sperimentazione, ma quel genio affamato colse l’occasione per plasmare la propria voce in modi folli e affascinanti: gracchi sgraziati, trilli inquietanti, lamenti ultraterreni, monologhi velenosi, in una voce che si ribella con ferocia alla propria scomoda bellezza.
Tall Tales si presenta come un’opera multistrato e riccamente strutturata, che esplora diverse sfaccettature narrative e musicali. Emerge chiaramente la passione di Pritchard per i sintetizzatori vintage e la sua propensione alla sperimentazione sonora. L’album è una sontuosa festa visiva che, pur essendo a tratti frammentaria, è capace di accendere riflessioni profonde. Sin dal brano di apertura, A Fake in a Faker’s World, traspare una critica pungente di avvertimento alla nostra arroganza, su come l’industrializzazione non stia solo devastando l’ambiente, ma stia anche influenzando la nostra psiche. In un presente iperconnesso e accelerato, lo spazio per sognare si restringe fino quasi a svanire e viene sostituito da visioni prefabbricate che non ci appartengono, ma che continuiamo ad acquistare come fossero nostre.
«I’m all sobered up, starting again / Trying to walk straight but my legs cave in / It’s either this or jump / If you know what I mean», confessa Yorke in Back in the Game: questi versi potrebbero essere letti come una lotta contro la dipendenza da sostanze, o come la riflessione di un uomo che fatica a reinventarsi e a rimanere in piedi, in equilibrio, mentre è nell’atto di compiere un ulteriore salto creativo. La produzione macchinosa di questo brano, il primo delle tre anteprime, richiama vagamente quel periodo in cui Damon Albarn componeva i brani dei Gorillaz sull’iPad. Qui Thom sperimenta e manipola digitalmente la sua voce, dal timbro fluido e malleabile, incastrandola perfettamente con la sofisticata architettura sonora di Pritchard, caratterizzata da una linea di basso pesante, profonda e quasi inquietante.
Anche quando si muove nel territorio più riconoscibile del suo stile, come nella traccia The Spirit, Yorke non si concede mai al dramma facile. Ogni volta che sembra sul punto di forzare una nota, in realtà poi la trattiene, quasi la soffoca, lasciando in sospeso un’emozione che diventa lancinante proprio per ciò che non esplode. Nel complesso, una sinergia affascinante di come la sottrazione pesa più dell’eccesso. Eppure la voce di Thom Yorke continua a portare con sé una promessa: quella di un climax emotivo, di una nota finale che scenda fino a posarsi con grazia sul finale. Ma non è questo quello che Yorke e Pritchard stanno cercando.