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The Rocky Horror Picture Show: don’t dream it, be it

A 50 anni dalla sua uscita nelle sale, The Rocky Horror Picture Show non ha perso lo smalto e continua a imporsi non solo come una delle opere più iconiche della storia dello spettacolo, ma anche come un autentico manifesto di assoluta stravaganza, eccentricità e libertà: in altre parole, un grande cult queer


Ci sono opere che sembrano destinate a entrare nella storia del costume sotto ogni aspetto. Opere che sembrano il frutto di un perfetto allineamento dei pianeti. Opere che nascono cult perché sanno di esserlo nell’anima. Lo sapeva Richard O’Brien, quando scrissela sceneggiatura e i brani di un musical teatrale chiamato The Rocky Horror Show. E lo sapeva anche Jim Sharman, che ne avrebbe curato la messa in scena. Nel 1973 – nella Londra di David Bowie nei panni di Ziggy Stardust – lo scienziato travestito Frank-N-Furter, interpretato dall’allora sconosciuto Tim Curry, debutta nei teatri. L’interesse è tale che solo due anni dopo, nel 1975, invaderà anche i cinema.

Eccentrico, colorato, sfacciato, audace, The Rocky Horror Picture Show non è un successo immediato. Saranno le proiezioni di mezzanotte e il passaparola a diffondere l’oltraggioso verbo di un film che rifletteva magnificamente la rivoluzione queer, attuata oltreoceano coi moti di Stonewall, mentre ciò che rimaneva della Swinging London consumava le sue ultime cartucce in quella che era una visione alternativa e più libera del costume. Il film è un musical, per cui si parla anche di musica e, in quegli anni, da quel punto di vista ci si poteva considerare, per dirla all’anglosassone, blessed.

In breve, Brad (Barry Bostwick) e Janet (Susan Sarandon), giovani promessi sposi, in una notte di pioggia, bucata una gomma, si rifugiano in un castello e si imbattono nel folle Frank-N-Furter il quale, come un moderno Dr. Frankenstein, è intento a donare la vita a Rocky Horror, l’uomo dei suoi sogni. Immersi in un mondo completamente fuori da ogni logica, per la coppia sarà l’inizio di un viaggio nella perdizione e nel sesso, alla scoperta di una libertà che forse neanche loro immaginavano di poter provare.

Non è difficile intuire come The Rocky Horror Picture Show nel corso degli anni sia riuscito a entrare nell’immaginario collettivo. Quando Frank entra in scena intonando Sweet Transvestite, egli è l’incarnazione glam-rock del desiderio e della trasgressione, con quel fare da cabaret berlinese, quel rossetto luccicante e quei suoi occhi magnetici e trasversalmente seducenti. Bisessuale, travestito, proveniente dal pianeta Transexual, sul suo camice da laboratorio spicca un triangolo, chiaro riferimento al simbolo apportato sulle divise degli omosessuali nei campi di concentramento nazisti – ne parlerà nei primi anni ’70 il superstite Heinz Heger nel libro Gli uomini con il triangolo rosa, esponendo per la prima volta un tema fino ad allora sconosciuto ai più –. In quel caso, il vertice era puntato verso il basso, mentre quello di Frank punta verso l’alto, a simboleggiare un orgoglio identitario.

Frank-N-Furter spinge i due innamorati a dormire in due camere separate, si intrufola nel letto di Janet fingendosi Brad, poi va da Brad fingendosi Janet. Entrambi inizialmente ci cascano, ma una volta scoperta la vera identità, e superato lo shock, la concessione della propria carne all’esuberante uomo-donna è la diretta conseguenza di un desiderio di passione che aveva solo bisogno di esprimersi. È il momento in cui la presunta “normalità” si spoglia della sua ipocrisia entrando in contatto con chi è davvero libero. «I wanna be dirty», dice Susan Sarandon cantando l’orgasmica Touch-A, Touch-A, Touch Me e manifestando una libido fino a quel momento repressa.

Una delle sequenze più note è accompagnata dalla rockeggiante Time Wrap, una vera e propria danza collettiva dalla teatralità appassionante e libertaria. Lo spazio scenico esibisce i corpi senza vergogne di alcun tipo, e la coreografia si trasforma in un rito che fa del brano uno dei numerosi inni resistenziali della comunità LGBTQ+, ripreso nel corso dei decenni in svariate parate e performance drug.

In una continua alternanza musicale tra istrionismo e vulnerabilità, esibizionismo e malinconia, è in Rose Tint My World che il verso «Dont’ dream it, be it» si presenta come uno slogan macigno da ripetere e ripetere per invitare lo spettatore alla piena consapevolezza del proprio essere. Questo rende The Rocky Horror Picture Show un cult senza tempo, che ci parla ancora oggi nonostante lo scorrere degli anni. Un inno alla libertà che grida ancora.

Marco Nassisi

Per me scrivere di musica vuol dire trovare una scusa per ascoltarne tanta, scoprirne di nuova e fare un po' d'ordine nella testa.

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