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Post mortem: la decadenza del nostro tempo secondo I Cani

A 9 anni da Aurora sono tornati I Cani, con un disco attesissimo. Un manifesto disilluso sulla vita adulta, sul nostro presente, su un tempo storico che non lascia scampo


In nove anni possono succedere un sacco di cose. Forse è per questo i decenni sono l’unità di misura delle rivoluzioni. In effetti, proprio un decennio fa era piuttosto diffusa una teoria sulla fine del tempo, complice l’apparente capacità dell’essere umano di aver raggiunto un periodo di illusoria serenità, tra l’aspettativa di vita generale sempre più lunga e un momento prospero dal punto di vista finanziario, dopo i tragici anni della crisi economica. A voltarsi indietro, vien da pensare di essere stati degli sprovveduti. Il tempo in cui viviamo oggi ci proietta in un vortice di pessimismo, un abisso dove le notizie che ci raggiungono da ogni parte del mondo ci affondano sempre di più.

La narrativa di Niccolò Contessa, mente e voce dietro al progetto de I Cani, ci ha sempre abituati a un realismo istantaneo, quello delle fotografie analogiche che facevano da copertina ai suoi primi singoli, quando aveva un sacchetto in testa e tutti speculavano su quale fosse la sua identità. Lo hanno scritto tutti: dentro a quei dischi c’era un immaginario concreto, incomprensibile ai più che vivevano lontano dalla Roma ipocrita e borghese dei Parioli, negli anni divenuta sempre più tangibile. C’erano, però, anche le ansie generazionali di tutti quei ragazzi che erano diventati troppo grandi per fare certe esperienze, ma ancora troppo piccoli per le responsabilità della vita adulta. 

I dischi de I Cani sono dischi di costume, una cronaca che oscilla tra il giornalismo d’inchiesta e la letteratura postmoderna americana. Così, quando quella fine del tempo sembrava una visione ottimista, Contessa si è spinto oltre, verso i massimi sistemi del cosmo, in quello che poi è stato l’immaginario di Aurora. Lì, dove nello spazio il tempo non esiste e l’umanità è solo una briciola dell’insieme.
Nove anni dopo, ci si è accorti che il tempo non è finito, l’umanità ne è uscita peggiore e quei ragazzi colmi di ambizioni, che usavano le velleità da intellettuali per scrivere racconti sui blog e racimolare una scopata occasionale a cadenza mensile, oggi si ritrovano a chiudere le pagine del passato e scoraggiarsi per ciò che il futuro gli riserva. Il ritornello di madre lo dichiara con una certa fermezza: «perché come era ieri, così non sarà più domani».

Post Mortem non è un disco di ottimismo e il suo titolo è una dichiarazione di intenti chiara e tagliente. Basterebbe immergersi fin da subito nei toni cupi dell’album per confermare come tutte quelle ambizioni giovanili siano infatti inesorabilmente finite. C’è ancora, però, quell’ostinata voglia di realismo, che nella penna di Contessa ha ormai raggiunto una solidissima maturità. Del resto, più matura è anche la scelta di conferire un ruolo preponderante al comparto musicale, ottenendo un deciso e solido incastro tra strumenti tradizionali e musica elettronica. 

Fin da subito con io, la canzone che apre il disco, quell’ossessione individualista per se stessi, unita alla diatriba tra l’ambizione per la spiritualità e la vanificazione di essa per tutto ciò che è triviale – tipica in alcune canzoni di Contessa –, qui diventa un manifesto umano di sconfitta. L’incessante ripetersi del pronome nel ritornello appare infatti come un’ammissione di colpa che, allo stesso tempo, vale tanto per il singolo quanto per la collettività, ovvero tutti quanti noi. È lo stile di vita occidentale, nella parte del mondo in cui sono nato, quello che si ostina a ricercare una vita quieta fondata sul piacere materiale, ottenendo una facile fruibilità dei vizi per soddisfare un’esistenza di bisogni all’insegna dell’invidia («degli artisti ci interessa essenzialmente che cos’hanno mangiato e dove vanno in vacanza»), dove la capacità di riflettere è ormai sacrificata in favore della superficialità («se qualcuno parla di anima è un invasato»). 

Nel suo insieme, Post Mortem è lo sviluppo artistico e narrativo di molte delle storie che abbiamo amato dell’opera completa di Niccolò Contessa. Buco nero, ad esempio, sembra quasi il sequel delle vite di tutti i protagonisti del Sorprendente album d’esordio. Ognuno di loro, oggi, è inadeguato per se stesso e per la propria posizione all’interno della nostra società dei consumi. Nel rammaricarsi per trovarsi di fronte al disfacimento dei propri sogni giovanili, una verità ci raggiunge mentre aspettiamo in fila per la cassa come tutti gli altri: «non si complica la vita alla gente con i tuoi problemi immaginari».

Come ogni disco, Contessa si ispira a un romanzo di particolare importanza evocativa. Questa volta, gli indizi ricadono tutti su La montagna incantata di Thomas Mann, uno degli scrittori che più ha indagato sull’inadeguatezza, sulla decadenza umana legata a certi manierismi e sull’ammissione di colpevolezza di fronte al fatto di non saper vivere una vita priva di peccati. 

Tra sonorità languide, fatte di bassi incessanti, effetti sonori dilatati e accordi logoranti capaci di trasportare in un vortice di desolazione, Post mortem appare come la fotografia più riuscita di un epoca in cui tutto sembra sempre grigio, proprio come le immagini che sono state diffuse per presentare il disco al pubblico. Un grigio scuro, che ha le sfumature del carbone, materiale che da il titolo a un’altra grande canzone presente nell’album: una riflessione sul modo peggiore di amare, quello di spingersi in avanti solo per non ammettere a se stessi le proprie incertezze.

Se in dieci anni uno degli artisti più influenti della musica italiana contemporanea ci ha regalato un manifesto così disilluso del contemporaneo, forse non basteranno altri dieci anni per cambiare questo tempo, che alla fine si è tutt’altro che fermato. Anzi, sembra non lasciarci scampo. 

Massimiliano Zito

Tra Lester Bangs e Éric Rohmer, la filologia moderna e il garage rock. Conduco un podcast che si chiama "Due Dischi". Vorrei far diventare la scrittura un mestiere per evitare di lavorare davvero.

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