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Pink Elephant, ovvero ripartire dal proprio cerchio di fiducia

Nell’anno del serpente e alla ricerca di una nuova stabilità, finalmente, gli Arcade Fire sono tornati. Con Pink Elephant, ultima fatica discografica firmata Columbia Records, la band canadese esplora nuovi equilibri sonori e tematici, tra onirismo, fiducia e cambiamento. Un viaggio musicale che affronta insicurezze e trasformazioni, segnando un nuovo inizio nella loro intensa parabola artistica


C’è chi, per superare le crisi, si affida a una sfida radicale capace di capovolgere le proprie certezze, come quella di ricominciare tutto da capo. Gli Arcade Fire, in questi venti anni di attività, hanno più volte rivoluzionato il proprio suono, scegliendo spesso la rottura con i propri lavori precedenti in virtù di una costante ricerca del nuovo. Questa volta, però, cambiare rotta è sembrata una decisione obbligata per Win Butler, a seguito prima della decisione del fratello Will di separarsi definitivamente dal gruppo – a poco meno di una settimana dal debutto di We, il disco precedente della band –, poi dei casi di cronaca che lo hanno raggiunto nel 2022. Scheletri nell’armadio o elefanti nella stanza: entrambi i concetti raccontano l’incapacità umana di affrontare i propri turbamenti. Una soluzione transitoria, che nasconde il problema senza mai risolverlo.

Sembra, infatti, che proprio guardando a quell’elefante Win Butler abbia preso spunto per immergersi nel processo creativo alla base dell’ultimo lavoro della band canadese. Quello stesso elefante che, sulla copertina, ha un tono acceso, appariscente: non vuole passare inosservato. Si scioglie, fino a rivelare se stesso in tutta la sua precarietà.

Pink Elephant, edito ancora una volta dalla Columbia Records, riparte quindi proprio da Win Butler e dal cerchio di fiducia che egli ha stretto intorno a sé: quello con Régine Chassagne, compagna artistica e di vita del frontman, e Daniel Lanois, produttore canadese che ai cambiamenti sembra essere abituato da decenni: è lui infatti ad aver condotto gli U2, insieme a Brian Eno con il disco Achtung Baby, dal deserto californiano del Joshua Tree alle strade di Berlino. 

Il punto focale del nuovo album degli Arcade Fire è infatti proprio questo bisogno di superare per poi, infine, superarsi. Passare oltre i propri turbamenti, costringersi a cambiare perché tutto ormai sembra essere mutato. Win Butler si è così ritrovato ad affrontare la fine del sodalizio con il fratello, figura onnipresente nel processo creativo di una band da sempre legata alla familiarità come concetto cardine della propria discografia: dal vicinato dell’esordio Funeral fino alle Suburbs del loro terzo disco, nel quale alcuni giovani disillusi ritrovano le proprie certezze nella presenza dell’uno nell’altro. Ora, sembra invece essere la solitudine la condizione con cui, malgrado tutto, dover fare i conti. Circle of trust si propone di raccontare proprio questo opprimente disagio, attraverso la storia di una danza osservata dallo sguardo indiscreto di figure come Icaro o l’Arcangelo Gabriele – ancora una volta gli Arcade Fire strizzano l’occhio alla mitologia, come ai tempi di Reflektor («He’s watching us dancing / Thinking it could be us»).

Queste tematiche si riversano nel nuovo album con gli stilemi più o meno classici della discografia della band. I suoni sono cupi, i sintetizzatori si fondono con gli strumenti, spesso e volentieri con troppa audacia. Il risultato è una sintesi più minimale nelle orchestrazioni dell’album, che forse rende il suono troppo rarefatto. 

Ne è un esempio concreto Alien Nation, canzone che rivela apertamente lo sfogo delle nevrosi di Win Butler, ma che finisce per snaturare i toni più evocativi della prima metà dell’album. È pero interessante notare come in tutte le canzoni del disco il ritmo sia dettato da una drum machine, chiamata a sostituire le percussioni del fratello ormai esule. Più evocativa, invece, I love her shadow, malinconica canzone d’amore che richiama le sonorità dei New Order e che passa forse inosservata a causa della sua posizione all’interno della tracklist, la quale solo in coda rivela i brani più vicini alla tradizione musicale della band. 

Il fiore all’occhiello di tutto il disco, però, sono i singoli. «Take your mind off me / The way it all changed makes me wanna cry»: il testo della title track Pink elephant, che si apre su una voce incomprensibile accompagnata da un pianoforte che immerge subito l’ascoltatore in un’atmosfera onirica, è uno degli esempi perfetti di come sia importante, per gli Arcade Fire, lasciare anche spazio al comparto strumentale. Tutta la canzone si sostiene sulla chitarra di Win e sulla sua voce incerta, capace di trasmettere tutto il senso di insicurezza di cui l’album si fa portavoce, un po’ come accadeva in Neighborhood #1.
Una perfetta introduzione per quello che appare come il vero gioiello del disco: Year of the snake, manifesto perfetto delle intenzioni alla base dell’album. Una canzone che appare come il giusto compromesso tra la musica suonata e quella più “digitalizzata”, tra il passato della band e il suo presente («Let the fire blaze / I Let the light change / I Let the heavenly body fall out of phase / I It’s the new age, don’t do what you should»).

In conclusione, Pink Elephant è un disco che, nella discografia degli Arcade Fire, si colloca perfettamente a metà tra il loro suono più tradizionale e quello più sperimentale. Difficile pensare che possa resistere alla prova del tempo, ma è sicuramente il primo passo per accettare il cambiamento, senza lasciarsi sopraffare. 

Massimiliano Zito

Tra Lester Bangs e Éric Rohmer, la filologia moderna e il garage rock. Conduco un podcast che si chiama "Due Dischi". Vorrei far diventare la scrittura un mestiere per evitare di lavorare davvero.

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