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People watching: il tentativo di Sam Fender di catturare il fascino del quotidiano

Il nuovo disco di Sam Fender fa un passo in avanti nella scrittura e nella composizione, ottenendo un lavoro dai toni più maturi ed evocativi. Le canzoni, però, fanno fatica a permanere dopo l’ascolto


Fin dai primi momenti della sua carriera, Sam Fender sembrava volersi porre all’interno di una generazione che attingeva direttamente alla musica che la patria della Union Jack ha regalato al mondo per tutto il periodo degli anni ’90. Del resto, non è poi così sorprendente che il britpop abbia donato un lascito che dura ormai da trent’anni, talmente influente da provocare numerose suggestioni nella maggior parte dei dischi degli autori inglesi apparsi negli ultimi dieci anni. 

Era il 2019 e, nella scena musicale di oggi, sei anni sono un’eternità. Con il suo esordio Hypersonic Missiles, Sam Fender, cantautore dell’hinterland di Newcastle, sembrava voler trovare il giusto compromesso fra testi di semplice comprensione e un sound tipicamente indie rock. Niente sperimentalismi, solamente 13 pezzi scritti con la volontà di evocare il ricordo degli esordi di band come The Stone Roses o Oasis. Canzoni smaccatamente nostalgiche nella loro composizione, degli inni alla vita ingenua con qualche sporadico momento di indagine sui traumi psicologici del passaggio dall’adolescenza alla vita adulta.

Posizionandosi nel mucchio della scena musicale alternative inglese con un esordio che sembra essere speciale soltanto nell’atmosfera del momento della sua uscita, in un tempo in cui il pubblico inglese era alla spasmodica ricerca di qualcuno che potesse raccogliere lo scettro degli Arctic Monkeys – già ai tempi ormai lontani da Sheffield e più vicini alle vibrazioni americane –, Sam Fender ha dato il via a un percorso che, arrivati all’ascolto di People Watching, sembra votato completamente alla ricerca di qualcosa di più profondo da aggiungere alla propria cifra stilistica. 

Il titolo del nuovo disco appare proprio come una dichiarazione di intenti, che sembra evocare sia il peso del riconoscimento da parte del pubblico, sia il bisogno, da parte di Fender, di osservare con maggiore attenzione i gesti, le abitudini, le vite degli altri. La prima canzone, che si chiama proprio People Watching, è un ritratto di chi sta guardando – da un punto di osservazione apparentemente onnisciente – il viavai di chi si affanna in questa folle corsa chiamata vita. La speranza da parte dell’osservatore silenzioso, che come chiunque altro percorre la propria linea retta in un momento di angoscia, è che le vite delle persone che osserva siano più felici della propria, o per lo meno più serene. 

«Do you have to know me inside out to have a good time?»: il concetto attorno al quale ruota la canzone Arm’s length è l’obiettivo di Fender di raccontare ciò che va oltre le banali abitudini di quelle vite che altrimenti si perderebbero tra la folla. È la volontà di descrivere tutte quelle esistenze nascoste tra le mura e le finestre chiuse. L’incanto straordinario della vita ordinaria.

Fin dai suoi giovani esordi, Sam Fender rievoca Bruce Springsteen e quella sua particolare attenzione alla working class che in People Watching si prende ancora più spazio, a partire dalla copertina che ritrae dei ragazzi mod occupati a giocare a carte e perdersi nei fumi delle sigarette di un pub qualsiasi. Sono loro i protagonisti dello storytelling di Sam Fender: storie di gente normale, di una quotidianità che si riscopre più speciale. 

Di Springsteen si ritrovano anche strumentali che si allontanano dal garage rock per avvicinarsi a un folk maturo, che prova a elevarsi su orchestrazioni più o meno presenti, come nel caso di Tv Dinner o Remember my name, canzone che chiude il disco e che si apre proprio con una fanfara. Per quanto questa delle orchestrazioni potrebbe sembrare una furbizia pensata per rendere le canzoni più evocative, il risultato finale funziona, seppure con qualche riserva. 

Sul lungo termine, è difficile capire se questo disco risulterà emblematico della carriera di Sam Fender, che dimostra sicuramente di aver reso la sua scrittura più matura e suggestiva. A fine ascolto, però, si fatica a ricordare una canzone rispetto a un’altra e si ha la sensazione di aver contemplato un dipinto dalle sagome sfumate, meno definito rispetto a uno dai tratti più netti e distinguibili. Un senso di confusione che però, senza dubbio, suggerisce la necessità di dare ancora un altro sguardo, per cercare qualcosa di più.

Massimiliano Zito

Tra Lester Bangs e Éric Rohmer, la filologia moderna e il garage rock. Conduco un podcast che si chiama "Due Dischi". Vorrei far diventare la scrittura un mestiere per evitare di lavorare davvero.

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